Frankenweenie regia di Tim Burton
AnimazioneIl giovane Victor vorrebbe riportare in vita l’adorato bull terrier Sparky seguendo gli insegnamenti di uno stravagante professore di scienze. Ci riuscirà, contro ogni aspettativa, ma la sua incredibile impresa scatenerà la furia dei concittadini ignoranti e l’invidia dei compagni di classe, ambiziosi concorrenti nella fiera scientifica della scuola. Il caos regnerà sovrano.
Era il lontano (ma nemmeno troppo) 1984 quando un Tim Burton appena venticinquenne realizzava il suo terzo cortometraggio prodotto dalla Disney, Frankenweenie, storia di un ragazzino di dieci anni che non riuscendo a rassegnarsi alla morte del cane lo resuscita con la complicità di un violento temporale, gettando nel panico la comunità ottusa e perbenista. Interpretato da Shelley Duvall, Daniel Stern e dal protagonista de La storia infinita Barret Oliver, il corto in b/n dell’esordiente regista californiano rielaborava il classico di Mary Shelley traendo ispirazione dai cult horror diretti da James Whale nei primi anni ’30 (Frankenstein e La moglie di Frankenstein) e recuperando le suggestioni già presenti in Vincent, splendido gioiellino espressionista realizzato in stop-motion nel 1982.
All’epoca sotto contratto della Disney come animatore, Burton non si limita con Frankenweenie a gettare le basi stilistiche della sua successiva cinematografia, ma si prende un’attesa rivincita contro i datori di lavoro che lo costrinsero a disegnare innumerevoli cagnolini scodinzolanti e volpacchiotti spensierati nello stucchevole classico dell’81 Red e Toby. Peccato però che il suo atto di ribellione fosse destinato ad impigliarsi tra le rigide maglie dell’MPAA. Affine a Vincent nelle atmosfere così come nelle vicissitudini distributive, Frankenweenie vede infatti la luce grazie all’appoggio produttivo dello sponsor di Burton presso la Disney, Julie Hickson, ma non ottiene più di qualche sporadica proiezione in Gran Bretagna. A condannarlo è l’assegnazione del marchio Parental Guidance, o meglio, come afferma ironicamente lo stesso regista, dalla mancata approvazione della “Perfetta Casalinga Americana”.
Quasi tre decenni più tardi cambiano i tempi ma non le intenzioni. Legato alla Disney da un ormai proficuo sodalizio e da una libertà creativa pressoché totale, Tim Burton si concede il lusso di recuperare il contestato cortometraggio d’esordio per trasformarlo nell’allora agognato lungometraggio, utilizzando la tecnica che più di tutte lo ha contraddistinto come pioniere e artista dell’animazione tradizionale, tanto in bidimensione che in stereoscopia: il passo uno. E se all’epoca dello spettacolare, quanto ambizioso, The Nightmare Before Christmas la lavorazione in stop-motion era al limite dell’impossibile, oggi le tecnologie in 3D consentono al visionario regista di ottenere risultati visivamente sorprendenti senza sacrificare l’artigianalità del suo lavoro.
Candidato (perdente) ai recenti Golden Globe e nominato all’Oscar per i prossimi Academy Awards, Frankenweenie gioca decisamente in casa (tre i film Disney su cinque nomination), ma si presenta come un avversario difficilmente competitivo rispetto ai candidati disneyani più “tradizionali” (Brave e Ralph Spaccatutto). Tuttavia, la sua originalità tecnica e narrativa rivaleggia con un altro splendido prodotto in stop-motion 3D, ParaNorman di Sam Fell e Chris Butler, sottolineando con fierezza il fascino intramontabile dell’artigianato nell’era invasiva del digitale. L’influenza delle nuove tecnologie non passa certamente inosservata, e rende necessari alcuni aggiustamenti rispetto al corto di partenza (basti pensare al filmino d’apertura proiettato da Victor), ma il gusto della manifattura ha comunque la meglio sul puro intrattenimento computerizzato.
Quella dimostrata da Burton nei confronti dei suoi prodotti d’animazione è infatti la cura appassionata e minuziosa del cesellatore, che non perde di vista l’importanza delle rifiniture e dei dettagli, perfino quelli apparentemente insignificanti. Frankenweenie non fa eccezione; al contrario, e forse più che in passato, sorprende la meticolosità nella costruzione delle controscene (la sequenza del pranzo è esemplare) e la creazione di piccoli episodi che sembrano divergere dalle linee guida dell’intreccio ma che lo arricchiscono, invece, di siparietti memorabili (il gatto veggente, l’esperimento di volo “idrico”).
Per chi avesse intenzione di snobbarlo, ritenendolo un film per ragazzini, si impone doveroso un ripensamento: l’opera ultima di Burton ne segna finalmente il ritorno in grande stile, dopo una serie di “esperimenti” non del tutto riusciti (Dark Shadows in testa). Gli ingredienti sono sempre gli stessi (visionari, gotici, cimiteriali, tenebrosi ecc.. ecc.., conoscete il repertorio lessicale) ma l’impasto ha la giusta consistenza di un capolavoro per palati raffinati. Non mancano le consuete musiche evanescenti e fatate di Danny Elfman, che pure sa trovare i registri sonori più adatti per accompagnare le varie sfumature narrative del film, e il montaggio “hitchcockiano” (del genere “post-doccia di Psycho“) del fedele Chris Lebenzon è un pregiatissimo lavoro di alta orologeria. Per non parlare, poi, dello script di Leonard Ripp, perfetto nel trasformare la tipica fiaba nera burtoniana in un trattatello antropologico sulle dinamiche (anti)sociali della provincia americana.
Membro oramai riconosciuto dello star system hollywoodiano, ma sempre avvolto da quel je ne sais quoi di stravagante che lo rende eterno outsider di culto, Burton non perde il proprio spirito irriverente e salace, e continua a trattare con dissacrante black humour i capisaldi del rassicurante modello cinematografico mainstream, ambientando la sua ultima fatica in un ipotetico sobborgo americano che fa il verso alla mecca del cinema tanto nel nome (New Holland) che nell’aspetto (la collina su cui sorge il mulino della città ricorda la Mount Lee di Santa Monica).
La periodizzazione è volutamente ambigua e generalizzata: mentre i genitori di Victor guardano in tv una replica di Dracula (1958), al cinema danno Bambi (1942) e lo scarto di quasi vent’anni tra l’uno e l’altro lascia ben poche certezze cronologiche. Una cosa, però, è certa: come in Edward Mani di Forbice – ma senza il supporto del colore - Burton recupera il clima falsamente edenico della piccola borghesia di provincia per turbarlo e metterlo in discussione, facendolo deflagrare con l’aiuto di un agente esterno, mostruoso alle apparenze ma fondamentalmente innocuo. Anzi, addirittura benefico.
I veri mostri non sono i freaks venuti da lontano (o, in questo caso, dall’oltretomba) ma i borghesucci intolleranti che non sanno vedere oltre la salvaguardia del proprio orticello, e reagiscono alla (falsa) minaccia imbracciando il forcone e inneggiando al linciaggio. I personaggi antropomorfi partoriti dall’immaginazione burtoniana non sono mai veramente umani, ma intrattengono con l’universo dell’orrido e del terrificante un legame tutt’altro che sottile. Sproporzionati, espansi, allungati, bitorzoluti, ricordano i protagonisti dei classici dell’horror: l’aiutante gobbo Igor, lo stesso Frankenstein, e poi mummie, lupi mannari, creature della laguna nera in scala ridotta e perfino una tartaruga gigante imparentata con Godzilla (al centro di un esilarante scontro con un criceto diabolico).
Burton, al contrario di Tarantino, non attribuisce alle proprie citazioni (evidentissime e sovrabbondanti nel finale del film: dalla cabina telefonica de Gli Uccelli al mulino in fiamme di Frankenstein) lo statuto di “furti”, ma piuttosto di rielaborazioni in chiave emotiva e personale. La rilettura dei titoli storici dell’horror passa attraverso l’attenzione costante per alcuni temi cari alla sua biografia, e dunque anche alla sua filmografia. Primo fra tutti, il senso di alienazione del diverso, alimentato dall’imposizione sociale ad essere “normale” (e, dunque, ad essere come gli altri) e reso evidente dall’ansia di socializzazione del padre di Victor – a cui, in fondo, va imputata la morte di Sparky (più rocambolesca che nel corto originale) – e dalla canzone-simbolo dell’esibizionismo del sindaco (cantata, in originale, da una ritrovata Wynona Rider).
Come sfuggire, dunque, all’oppressione e alla grettezza mentale? Ma coltivando un sogno, ovviamente! Perfino quello, irrealizzabile sulla carta (e, diciamocelo, un po’ morbosetto) di riportare alla vita i cari estinti. Attraverso una visione romantica della scienza, che attribuisce alla componente affettiva una valenza essenziale e sfata il falso mito di una disciplina rigida, arida, razionale, Burton non compromette la propria eccentricità, ma rilegge comunque a suo modo la tanto vituperata favola buonista, regalando infine al suo ennesimo alter ego weird un lieto fine degno di un classico disneyano. Perché essere strani non vuol dire necessariamente negarsi qualche piccola soddisfazione.
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