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9/10

A Single Man regia di Tom Ford

Drammatico
recensione di Fulvia Massimi

30 novembre 1962. Sconvolto dalla morte del compagno di una vita, George Falconer, professore universitario nella Los Angeles degli anni ‘60, convive con il senso di perdita e di solitudine, assistendo impotente allo scorrere della sua esistenza: un interminabile susseguirsi di giornate che non vogliono saperne di volgere al termine, scandite dall’impercettibile movimento delle lancette su un orologio. Non c’è più nulla per cui valga la pena vivere e la meta è unica e agognata: la morte. Ma il confronto con un giovane e ambiguo studente porterà George a riconsiderare le proprie decisioni.

A Single Man, sorprendente opera prima dello stilista texano Tom Ford, avrebbe dovuto rispecchiare fedelmente l’omonimo romanzo di Christopher Isherwood, datato 1964, a cui si ispira ma l’esperienza personale del regista permea lo script al punto da tradirne – sono le parole di Ford – e quasi ribaltarne il senso.

Nella speranza di conquistare la fama eterna che l’effimero mondo della moda non è in grado di offrirgli, Tom Ford si rivolge al cinema, portando sul grande schermo la stessa eleganza e lo stesso stile che gli hanno permesso di far rinascere la Maison Gucci. Forte di un’estetica inappuntabile e di un gusto per il dettaglio che sfiora l’ossessione, A Single Man racchiude negli impenetrabili silenzi e nei particolari registrati dallo sguardo del protagonista l’elaborazione di un lutto senza fine. I ricordi fluiscono dalla mente di George come diapositive da un proiettore: brandelli di una vita insieme, attimi di intimità domestica, fotografie in b/n che prendono vita; l’uso di dettagli  e primissimi piani à la Michael Mann, irrinunciabile esercizio di stile, è a tal punto dominante da diventare quasi fastidioso, un’intrusione nella vita altrui, come spiare un amplesso dal buco della serratura.

La corrispondenza tra il pensiero del regista e la messa in scena è così immediata da non lasciare alcuna perplessità sulla durata delle riprese (solo tre settimane di lavorazione) e la lucida – ma mai sterile – perfezione del risultato ne è la dimostrazione. Colin Firth offre, alla soglia dei cinquant’anni, una delle prove più memorabili della sua carriera (Coppa Volpi a Venezia 2009) e il personaggio di George sembra cucitogli addosso come gli impeccabili completi che indossa. Le performance di Firth e della Moore, di Goode e di Hoult, il montaggio a incastro di Joan Sobel, le magnifiche musiche di Abel Korzeniowski, ogni cosa è glamour, ineccepibile, raffinatissima, come la confezione di un gioiello dal valore inestimabile: non una scatola priva di contenuto (“Perchè lo stile senza sostanza non ha valore”) ma un universo di percezioni umane che si schiudono davanti agli occhi.

L’america dei Sixties prende vita tra una gigantografia di Janet Leigh in Psycho e un pacchetto di Lucky Strike comprato in un bar sull’oceano e l'atmosfera rivive nei costumi e nelle ambientazioni, ma è nel monologo di George ai suoi studenti che si cela la mentalità dell’epoca. Sono gli anni di Cuba e della Guerra Fredda, ma anche del consumismo e della pubblicità, che da Madison Avenue instilla nella gente il desiderio di comprare ciò di cui non ha bisogno (impossibile non pensare ai Mad Men di Matthew Weiner e alla straordinaria ricostruzione storica del serial AMC); gli anni della paura e della discriminazione, delle minoranze “invisibili” che non devono turbare il quieto buon vivere: gli anni in cui una casa di vetro come quella di George non è adatta ad ospitare due uomini che non possono baciarsi in pubblico.

Ventiquattro ore possono essere interminabili e George, novello Leopold Bloom, lo sa meglio di chiunque altro. Il tempo non potrebbe essere più relativo e la sceneggiatura di Ford e David Scearce sa scandirne abilmente il ritmo: lenta e rarefatta, quasi priva di dialogo, subisce una drastica svolta nel suo punto centrale, colorandosi di ironia e leggerezza. Il polveroso grigiore della solitudine si riscalda a contatto con i ricordi, grazie alla splendida fotografia cangiante di Eduard Grau, e il passaggio tra i due stadi è così repentino che si fatica a distinguere cioè che è reale da ciò che è immaginario: i due istanti si compenetrano e il calore degli attimi di vita vera (una nuotata nell’oceano, un twist con Charley/Julianne Moore, la migliore amica di sempre) esplode in una luce ritrovata.

La morte ha impregnato così a lungo ogni angolo della sua esistenza che è impossibile per George non considerarla un’alleata, così infedele ed ironica da comparire, come uno scherzo di cattivo gusto, proprio quando la rielaborazione del lutto sta lasciando il posto ad una rivalutazione delle piccole gioie della vita. E per quanto Tom Ford voglia scorgere nel suo film uno spiraglio di ottimistica speranza, rimane in bocca una sensazione amara di fronte al fotogramma su cui si chiude l’ultima giornata del suo uomo solo.

 

V Voti

Voto degli utenti: 8,3/10 in media su 4 voti.
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alexmn 8/10

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tramblogy (ha votato 8 questo film) alle 0:26 del 20 maggio 2013 ha scritto:

Bellissimo!