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8/10

La Pelle Che Abito regia di Pedro Almodóvar

Thriller
recensione di Fulvia Massimi

Nella sua casa-clinica fuori Toledo il chirurgo plastico Robert Ledgard conduce esperimenti su una misteriosa paziente reclusa, con l'obiettivo di creare una pelle artificiale pressoché perfetta: dietro la reale identità della donna si cela però un segreto custodito per quattro lunghi anni.

Il cinema di Pedro Almodòvar cambia pelle: dopo trent’anni di eccessi cinematografici, volti a raccontare con surreale ironia gioie, tormenti e (melo)drammi della contemporaneità (iberica), il vulcanico regista spagnolo imprime una svolta decisiva alla propria carriera. Con La pelle che abito strepitoso thriller presentato in concorso al 65esimo Festival di Cannes – Almodòvar non rinnega i capisaldi tematici ed espressivi della propria filosofia cinematografica ma si addentra nei territori, solo parzialmente esplorati, della più lucida follia umana, indagando con stile glaciale le ragioni di un desiderio senza più legge.

Riadattando per lo schermo il romanzo di Thierry Jonquet, Tarantola, e trasportandone la storia, densa di violenza ed erotismo, in una Spagna appena futuribile (la Toledo del 2012), Almodòvar cuce fra loro frammenti di melò e noir, confezionando l’abito (attillato) più adatto alla sua rinnovata sensibilità registica: un cinema chirurgico e minimale, che non rinuncia a certe grottesche esuberanze del passato (incarnate qui dal personaggio del “Tigre”/Roberto Álamo) ma che si allontana dalla passionalità calorosa ed estrinseca della cinematografia precedente per dedicarsi alla visceralità dei sentimenti umani, all’orrore psicologico che si manifesta nel corpo e sul corpo.

A vent’anni di distanza da Legami! - pellicola tra le più geniali della filmografia almodovariana e non priva di legàmi (si perdoni il gioco di parole) con La pelle che abito - un Antonio Banderas più cupo e disturbato che mai torna a lavorare con il “maestro” che lo lanciò, nel 1982, in Labirinto di passioni, avviando un sodalizio che trova uguali soltanto nel binomio hollywoodiano Tim Burton-Johnny Depp. Frankenstein contemporaneo, consumato da un’ossessione vendicativa che si trasforma in ossessione d’amore, il Robert Ledgard di Banderas recupera, esasperandoli, i tratti del giovane psicopatico Ricky, infatuato a tal punto dell’attricetta Marina (Victoria Abril) da tenerla prigioniera nel suo stesso appartamento.

Sulle medesime dinamiche di reclusione e conseguente sindrome di Stoccolma (vera o presunta) si fonda anche l’ultima fatica di Almodòvar, che intensifica la linea thrilleristica a (parziale) discapito di quella melodrammatica e asciuga le esagerazioni pop-surrealiste a favore di uno stile teso, spietato, razionale – ma non per questo emotivamente freddo – nel quale i fili conduttori del suo cinema trovano modo di dipanarsi. In linea con la produzione più recente (da La mala educacìon in poi), il regista castigliano si insinua nei torbidi meandri della vendetta e di un crimine che, una volta commesso, pone vittima e carnefice a continuo confronto con gli spettri del passato: un tormento costante e sottaciuto che non può essere espiato se non con la morte.

In perfetta armonia con un concept registico attento a non offrire mai anticipazioni decisive ma solo indizi sporadici, il magnifico lavoro di montaggio del fedelissimo José Salcedo (con Almodòvar fin dagli esordi) – fondato sulla destrutturazione dell’ordine cronologico degli eventi e sul progressivo svelamento delle informazioni – accompagna lo spettatore verso l’uscita di un labirinto psicologico (e geometrico) di tormenti interiori e follia, nel quale i confini di genere e sessualità, tipicamente indagati dal cinema almodovariano, si fanno ancora più ambigui ed instabili. Travestimento e transessualità cedono il posto ad una radicale (e fantascientifica) metamorfosi, nella quale maschile e femminile risultano divisi soltanto da una barriera epiteliale creata a tavolino: le domande etiche soccombono alla disturbante meraviglia della creazione (o della rinascita), allontanando l’attenzione dalla matrice scientifica della vicenda narrata per focalizzarsi su quella (dis)umana.

“L’erotismo, prima di tutto, può essere reale o immaginato, reciproco o no. È il desiderio, il flirtare, il timore di fallire, vulnerabilità, gelosia, e violenza” sosteneva Louise Bourgeois, dalle cui “sculture” trae ispirazione l’enigmatica Vera, prigioniera di un corpo imposto, una cella senza sbarre che potrebbe condurla alla pazzia se lo yoga non fosse l’unica via per la salute mentale. Ne Gli Abbracci Spezzati l’esplicito riferimento a Gli Amanti di Magritte segnava l’immaginario iconografico di un film dall’elevato potenziale metalinguistico; in La pelle che abito i codici espressivi dell’arte contemporanea e rinascimentale (la riproduzione de La Venere di Tiziano troneggia nella villa di Robert) diventano i significanti di un morboso culto della bellezza e della perfezione.

Nei lavori inquietanti di Vera – assemblaggi antropomorfi di tessuto e stoffa lacerata – risiede una sessualità incerta e rabbiosa, paradossalmente (auto)distruttiva: la ribellione dello sguardo (e del corpo) femminile contro l’aggressione maschile (rappresentata, nelle opere della Bourgeois, da un padre “famelico” che deve essere a sua volta divorato). Ed è proprio lo sguardo della “donna” a perforare il quadro filmico, generando una moltiplicazione dei punti di vista che contribuisce a disorientare lo spettatore, rendendo i meccanismi di identificazione sempre più incerti e palesando l’attitudine almodovariana ad un uso metariflessivo dei media visivi e visuali.

Sulla parete-schermo di Robert l’immagine-affezione deleuziana – la “lastra innervata” del primo piano – si amplifica a dismisura, diventando feticcio duplice: copia artificiale di un amore passato e, al contempo, donna-oggetto, donna-giocattolo, creatura mostruosa e perfetta partorita dalla scienza. Reminescenze bergmaniane si condensano nell’immagine di un volto ormai privo della propria identità primaria: uomo e donna si sovrappongono, annullandosi l’uno nell’altra, ma dietro la maschera inquietante e le cicatrici di un assemblaggio magistralmente riuscito la consapevolezza di sé resta salda e paziente, pronta ad esplodere.

Affiancata dall’esperienza di due almodovariani di vecchia data (Banderas e Marisa Paredes, nel ruolo di “governante” devota), la flessuosa Elena Anaya si concede con grazia alle torture del proprio demiurgo – dentro e fuori lo schermo – con l’intento di farsi icona, oltre che nuova musa (dopo Carmen Maura, Victoria Abril e Penelope Cruz). Sul suo volto e sul suo corpo Almodòvar – regista “di donne” senza eguali – diagnostica le nevrosi di un soggetto “femminile” capace di una maturità e di una forza che non trova paragoni nel suo corrispettivo maschile, sancendone la netta superiorità.

Aperto a continue sperimentazioni pur senza mai dimenticare i pilastri portanti del proprio credo cinematografico, Almodòvar si conferma capace di stare al passo coi tempi, cimentandosi con scenari innovativi e tracciati non ancora battuti: tra i colori satinati della cupa fotografia di José Luis Alcaine e le splendide melodie composte da Alberto Iglesias ha luogo la trasformazione di un cinema sempre fedele ma mai uguale a se stesso, che dalla sicurezza dell’abitudine trae l’impulso vitale al cambiamento. Un cinema che, lungo tre decenni, continua ancora a sorprendere, sconvolgere ed emozionare, con la stessa – forse maggiore – freschezza delle prime volte.

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ROX 8/10

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ROX (ha votato 8 questo film) alle 8:52 del 4 febbraio 2012 ha scritto:

bello. spiazzante... con un tocco all'Almodovar di sempre

hayleystark, autore, (ha votato 8 questo film) alle 9:53 del 4 febbraio 2012 ha scritto:

RE:

Come abbiano fatto a non candidarlo all'Oscar resta un mistero...

tramblogy alle 18:45 del 26 aprile 2013 ha scritto:

Tremendo e bello!!