Shame regia di Steve McQueen
DrammaticoNew York. Brandon è un uomo in carriera: ottimo lavoro, una bella casa e tante donne. Un misterioso passato l’ha segnato al punto da renderlo più-che-sesso-dipendente. Il ritorno della sorella Sissy come un terremoto rimetterà in discussione la (non) vita di uomo alla deriva. Dall’acclamato regista Steve McQueen, la rivelazione/conferma di Venezia 2011.
Vergogna s.f.
il profondo e amaro turbamento interiore che ci assale quando ci rendiamo conto di aver agito o parlato in maniera riprovevole o disonorevole. (dizionario della lingua italiana – g. de voto/g.c. oli)
Vergogna per qualcosa che si è fatto/detto o si è stati costretti a subire. Vergogna per qualcosa che si vuole nascondere, sfocato nei ricordi ma onnipresente nei segni/conseguenze fisiche e mentali.
Brandon è un uomo di successo. Un appagante lavoro-non-meglio-precisato, una bella casa, molte donne e il fascino sornione da tenebroso playboy. O almeno così sembra. Perché i silenzi sorrentiniani nascondono quel passato-cicatrice che non abbandona mai. Masturbazione in doccia che (non) ricorda quella di Spacey in American Beauty, chat erotiche, hard disk pieni di filmati porn-osè, sesso-occasionale-compulsivo, ammiccamenti e accavallamenti metro-politani, abbordaggi da bar tra uno shot e una non-danza, donne conquistate con una frase o uno sguardo. Ossessiva ricerca di sesso che non è semplice satiriasi quanto l’esplicitazione primordiale di una volontà quasi auto-distruttiva di volersi consumare. Ma è tutto un inutile contrappasso per colpe altrui.
Non siamo brutte persone, veniamo da un brutto posto.
Così la pensa Sissy (Carey Mulligan e le sue splendide fossette), sorella minore figlia dello stesso passato. Ritorna d’improvviso nella vita del fratello e come un proiettile entra nella sua carne fino al cuore, smuovendo prima rabbia, poi forse la voglia ricominciare a vivere. In un club della NY bene, la sua stupenda voce incanta/ipnotizza sulle note di una lentissima interpretazione di New York New York: il tempo dilatato della canzone sembra voler kubrickianamente riprendere il ritmo del film, fatto di tempi lunghi e scene colte nella loro durata effettiva. Dolente realismo.
La sua apparizione eterea è soltanto il riflesso di un io tormentato: delusioni d’amore, lacrime miste a trucco per gli occhi, innocenti/provocanti sguardi, notti di sesso con persone sbagliate, depressione giovanile che si voleva risolvere con tagli sulle braccia e quel fardello sconosciuto che la sua (femminile) fragilità a fatica riesce a sopportare. You’re a burden. Per Brandon è un peso da sopportare, ma solo perché lei è lo specchio della parte di sé che non vuole vedere, quella che ricorda fatti/persone o chissà-cos’altro che vorrebbe non ci fossero mai stati. Quella lacrima sincera alla fine della canzone tradisce una sensibilità umana che va oltre la fredda e meccanica dissolutezza di una vita solitaria in cerca di espiazione. Esistenze borderline che dovrebbero prendersi cura l’una dell’altra. Condizionale necessario perché quando sbagli tutto o sei trascinato fuori strada, finisci per non uscirne più, ti isoli, incapace di relazionarti con le persone, esprimere sentimenti e aiutare chi ne ha bisogno, foss’anche la sorella prodiga che ritorna per un ultimo disperato/silenzioso grido d’aiuto. Quella rabbiosa corsa attraverso strade notturne a-la-Mann (spettacolare la fotografia di Sean Bobbitt) è una fuga e al tempo stesso anche l’andare incontro a un’ultima chance che forse la vita può concedere. The end is the beginning is the end cantavano gli Smashing Pumpkins. Ma questa esistenza-limbo è fatta di altre storie: donne altrui che è meglio non toccare, omo-esperienze mai provate, sesso violento-animale-ossessivo-solitario, un’uscita a cena come tante altre che da prodromo carnale diventa l’inizio di un possibile amore che mette in crisi perché smuove il cuore elevando l’atto sessuale dal semplice espletamento di una funzione fisiologica. Un lungo respiro affannato.
Steve McQueen (inglese classe 1969) non vuole raccontare derive e perversioni sessuali di un uomo in carriera incapace di costruirsi una stabile vita familiare. La sua attenzione è paradossalmente rivolta all’unico elemento di cui non si parla in modo diretto: quel passato che segna a tal punto da precludere la possibilità di un’esistenza (serena). Ciò che conta però non è cosa sia successo – possiamo immaginarlo – quanto le profonde conseguenze social-emotive sulla vita presente: condanna a un precariato relazionale cui il protagonista sembra non potersi ribellare. Come nel suo strepitoso lungometraggio d’esordio, Hunger (migliore opera prima nella sezione Un Certain Regard a Cannes 2008), al centro della riflessione del regist-artista non ci sono i massimi sistemi, ma l’uomo: il suo modo di vivere, giusto o sbagliato che sia, le sue scelte, le (non) relazioni con le persone e il rapporto con se stesso. L’uomo in questione ha la stupenda fisicità e l’espressività di Michael Fassbender, meritata Coppa Volpi a Venezia. Fin dalla prima scena si prende sulle spalle il film, non si tira indietro davanti a reiterati nudi integrali, molteplici scene di sesso esplicito e intensi momenti di transfert-recitativo. L’uomo-alieno-della-vita di McQueen non poteva avere una faccia migliore della sua. Talento naturale.
Proprio per questo tipo di riflessione sull’essere umano e forse anche per il simile background non-cinematografico dei due autori, viene immediato il collegamento con A single man di Tom Ford (film che, caso vuole, fece guadagnare a Colin Firth la Coppa Volpi). Con un analogo approccio espressivo, ma una minore forza narrativa, l’ex stilista raccontava l’incapacità di un uomo a rielaborare il dolore per la morte del compagno dopo sedici anni di convivenza. Il suo disagio interiore si esplicitava nella lucida volontà di togliersi la vita, diventata per lui condanna peggiore della morte stessa. Quando poi le prospettive cambiano è il destino beffardo a far quadrare i propri conti. Affinità elettive.
Nel 2008 i distributori italiani ignorarono colpevolmente Hunger. Sarebbe davvero un peccato perdersi anche Shame, storia di un uomo che avrebbe voluto essere un musicista degli anni ’60. Sarebbe come scendere a una fermata sbagliata della metropolitana inseguendo una chimera.
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