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8/10

L'Arte di Vincere regia di Bennett Miller

Drammatico
recensione di Fulvia Massimi e Alessio Colangelo

2002. Billy Beane (Brad Pitt), ex-giocatore e General Manager degli Oakland Athletics, ha a disposizione poco più di quaranta milioni di dollari per mettere insieme una squadra in grado di vincere la Major League. Aiutato dal neo-laureato Peter Brandt (Jonah Hill) e dal suo accurato sistema statistico, Beane rivoluzionerà il mondo del baseball, sfidando la storia e infrangendo ogni record.

Fulvia Massimi

In principio fu Truman Capote, che con A Sangue Freddo (1965) – la sua ultima opera “compiuta” – inventò il genere letterario della non-fiction, il romanzo-reportage. Ed è quanto mai singolare che proprio Bennett Miller, candidato all’Oscar nel 2006 per l’omonimo biopic su Capote, abbia deciso di portare sul grande schermo l’adattamento di Moneyball: The Art of Winning an Unfair Game, romanzo datato 2003 e firmato da quel Michael Lewis che rappresenta forse l’esponente di punta della non-fiction americana di genere sportivo.

Il suo The Blind Side: Evolution of a Game (2006) - storia vera dell’attaccante dei Baltimore Ravens Michael Oher – era già approdato al cinema, con la regia di John Lee Hancock, nel 2009, offrendo un inaspettato premio Oscar a Sandra Bullock e imponendosi come ennesima dimostrazione di ciò che a Hollywood viene considerato “film sportivo”. Solo due anni più tardi anche Moneyball (il titolo si riferisce alla strategia economica adottata da Beane e Brandt) arriva nelle sale, accompagnato dagli elogi della critica e dai riconoscimenti internazionali.

Per nulla intimorito dalla rigidità delle convenzioni di genere, né tantomeno dal successo degli innumerevoli “precedenti”, Miller estrae dal romanzo di Lewis una pellicola che, pur avvalendosi di tutti gli stilemi del caso, evita la trappola dei facili sentimentalismi e, grazie all’interpretazione di un Brad Pitt in stato di grazia (non a caso candidato all’Oscar), riesce a raccontare con umanità e ironia una storia di passione sportiva che ha dello straordinario.

Rolling Stone lo ha annoverato tra i migliori film del 2011 e, con le sei candidature assegnate il 24 gennaio (due in più dei Golden Globe e tutte meritate), anche l’Academy sembra confermarne almeno in parte il giudizio. Restando con i piedi per terra, Moneyball – L’arte di vincere (ma, considerato il tema, sarebbe stato più corretto sottotitolarlo:  La scienza di vincere) non sarà, forse, uno dei film più originali in materia, ma si può tranquillamente considerarla una delle pellicole sportive più interessanti degli ultimi anni, vicina nello stile e negli intenti ad un altro grande “classico” contemporaneo: Il Maledetto United di Tom Hooper.

Billy Beane, come Brian Clough, è un uomo che allo sport ha sacrificato tutto se stesso. Ex-promessa del baseball professionistico, costretto a scegliere tra una borsa di studio a Stanford e l’insicurezza di una carriera che potrebbe non decollare mai, preferisce diventare General Manager per non ripetere gli stessi errori di chi gli ha rovinato la vita. E, come Brian Clough, vive così intensamente il proprio amore per lo sport («come si fa a non essere sentimentali quando si parla di baseball?»), da farsi consumare dalla collera e dalla nevrosi (alimentare), senza nemmeno riuscire a seguire le partite, a legare con i giocatori, a guardare dritta in faccia la sconfitta che, puntualmente, lo accoglie a fine campionato, nell’unico momento in cui tutti si ricordano di te.

Però, esattamente come Clough, Billy Beane è anche e soprattutto una figura rivoluzionaria: un eterno perdente (geniale e commovente la canzone della figlia Casey sui titoli di coda) che arriva a polverizzare i record imbattuti della storia, cambiandola per sempre (gli Oakland A’s sono, tutt’oggi, l’unica squadra con all’attivo una striscia di 20 vittorie consecutive).  Grazie all’incontro con un secchione di Yale col pallino per il baseball e una teoria infallibile in tasca – merito di Bill James, pioniere della statistica sportiva (o “sabermetrica”) – Beane riesce infatti lì dove nessuno prima aveva osato rischiare, reinventando il gioco che non si poteva reinventare.

«Il baseball non si fa con le statistiche», abbaiano i vecchi conservatori che sul campo lavorano da venticinque anni; non si fa una squadra con gli scarti («An island of misfits toy»). Eppure sono le percentuali ad avere la meglio, i gesti decisi, magari anche impulsivi, dettati dal desiderio di cambiare qualcosa; non i raccontini inventati a bella posta per arruolare un ragazzino a cui non si possono – e non si potranno mai – dare certezze. E il film di Miller è schietto come la filosofia “medievale” (di gioco e di vita) che propone. Schietto come il rapporto tra Billy Beane e Peter Brandt, due uomini agli antipodi che non potrebbero assomigliarsi di più.

E se Brad Pitt, con quel suo continuo sputare, ruminare junk food e scagliare oggetti contro i muri, ritorna agli eccessi del Tyler Durden finchiano per dare forma ad un personaggio questa volta reale, Jonah Hill riesce finalmente a smarcarsi dal peso ingombrante non già della sua mole bensì della commedia demenziale, trovando il modo di dare al ruolo di nerd, che lo caratterizza in modo pressoché invariato, la possibilità di imporsi anche in senso drammatico.

Nella sovrapposizione di calcoli, statistiche e immancabili filmati di repertorio – montati con maestria dal candidato all’Oscar Christopher Tellefsen (al fianco del regista già in Capote) – non si dispiega soltanto il gusto storico-documentario di Miller ma anche il talento narrativo di Aaron Sorkin, fresco di statuetta per lo script di un film che, più di ogni altro nella storia del cinema, è celebrazione spudorata dell’essere nerd ma con classe (The Social Network). Affiancato dall’esordiente Stan Charvin (autore della story) e dal premio Oscar – per Schindler’s ListSteve Zaillian, Sorkin sigla una sceneggiatura capace di impattare l’attenzione dello spettatore attingendo al repertorio del cinema sportivo all’americana (a cominciare dal Jerry Maguire di Cameron Crowe ) e sviluppando in parallelo – con equilibrio praticamente perfetto – la parabola individuale di Beane (tra presente e passato) e quella, collettiva, della sua squadra.

A Miller non resta che aggiungere il proprio tocco personale, focalizzandosi sulla costruzione dei personaggi principali (splendida la presentazione “ritardata” di Beane) e secondari (piccolo ma ben sviluppato il ruolo di Philip Seymour Hoffman), e avvalendosi dell’apporto del nolaniano Wally Pfister alla fotografia (dominata dai forti contrasti fin dalla prima inquadratura) e delle belle musiche di Mychael Danna, specializzato nella creazione di linee melodiche uniche, destinate a rimanere impresse senza stancare, perfino nella loro reiterazione. Ne emerge un film davvero poco scontato (vedere il finale per credere), più interessato a celebrare un uomo piuttosto che le sue conquiste, facendone il simbolo di una nazione che non deve vincere a tutti i costi per essere considerata vincente. Specialmente quando l’uomo in questione è, e continua ad essere, un loser. Da dodici milioni di dollari.

Alessio Colangelo

L'Arte Di Sopravvivere

"There are rich teams, and there are poor teams. Then there's 50 feet of crap. And then there's us.”

Brad Pitt ormai non deve certo più dimostrare le sue brillanti qualità di attore, ciononostante non posso fare a meno di sottolineare che, con questo film, ha veramente dato il massimo di sé riuscendo ad aderire perfettamente al personaggio e trasmettendo allo spettatore delle emozioni vere e quegli ideali puri e genuini che lo stesso Pitt condivide con Billy Beane, l’allenatore di una squadra di baseball. Che la pellicola vinca qualche Oscar o meno (miglior film, montaggio, sonoro, attore protagonista e non o sceneggiatura non originale) lo sapremo solo il 26 febbraio, ma la decisione dell' Accademy non è così rilevante e non ci farà cambiare idea su questo film, importante e di alta qualità. Un film sul baseball dunque, ma che potrebbe benissimo riferirsi a molti altri sport tra cui il calcio, a noi italiani più familiare; un film sul mondo o meglio sul mercato sportivo con cifre di ingaggi ovviamente a sei zeri, un film dove si spiega il principio archetipico che fa sì che in America, come in Italia, milioni di persone seguano, si appassionino, gioiscano, piangano di fronte alle sconfitte o vittorie della propria squadra del cuore. Beane da giovane decide di abbandonare gli studi per diventare giocatore di baseball, ma questa carriera avrà breve durata e lo porterà poi a essere il general manager degli Oakland Athletics. Quello che si impone di fare, da subito, è cambiare le regole di questo sport. L'incontro con Peter Brand (Jonah Hill) gli consentirà di realizzare un nuovo sistema di scelta dei giocatori basato su modelli statistici. Il paradigma comune in tutti gli sport è che gli ispettori scelgono i giocatori perché " a naso" sentono in loro una potenzialità, che però spesso non ha una ragione d’essere, come nel caso di Billy stesso. Il metodo opposto, quello di basarsi sui risultati e sulle prestazioni opportunamente espressi in variabili e dentro complessi algoritmi, porta la squadra a vincere per 20 volte consecutivamente senza però riuscire ad aggiudicarsi il titolo tanto agognato da Beane. La teoria di Brand e Bean non considera però quelli che sono i fattori umani, le vicende dell’esistenza, e se può convincere ad una prima prova, quando le competizioni diventano più importanti entrano in gioco fattori ansiogeni che guastano le cifre statistiche. D'altronde la statistica non è una scienza esatta e i calcoli poco si adattano alle persone fisiche.

La regia, pulita e coinvolgente, affidata a Bennett Miller si dimostra ben amalgamata alle prove degli attori già citati ai quali  si deve aggiungere Phillip Seymour Hoffman (nel ruolo dell' allenatore Art Howe) che aveva già lavorato con Miller in A Truman Capote - A sangue freddo. Il film lascia anche spazio a battute divertenti che alleggeriscono e rendono molto più coinvolgente il racconto. Un film vincente sulla figura di un perdente come dirà scherzosamente in voice over e black screen prima dei titoli la stessa figlia di Beane : “Papà sei proprio un perdente.” In fondo l’importante è crederci o come si dice sempre nello sport “partecipare”. Pochi anni fa abbiamo visionato  un altro film “sportivo” e “biografico” che, attraverso il rugby, ci ha fatto prendere coscienza di quanto sia importante lo sport per l’unità e la rigenerazione di un’ intera nazione: Invictus  dove al centro Nelson Mandela- Morgan Freeman parlava del Sudafrica e al Sudafrica; certamente altri tempi, altri luoghi e anche altro sport. Oggi più di ieri tutto cambia molto più rapidamente ed anche il mondo sportivo non fa eccezione .  Nella realtà vincono sempre di più le  personalità forti , motivanti, carismatiche e se Billy Beane avesse avuto un suo Mourinho forse  ora  si sarebbe potuta scrivere una storia completamente diversa.

Il film, che è tratto dal libro Moneyball: The Art of Winning an Unfair di Michael Lewis, è stato presentato al Toronto Film festival mentre qui in Italia ha aperto la 29ª edizione del Torino Film Festival nella sezione "Figure nel paesaggio". Proprio quest’ultima nomenclatura ne delinea le numerose inquadrature che vedono stagliarsi Beane o i suoi giocatori all' interno dell’ enorme spazio-paesaggio del campo di Baseball. La figura di Beane è ancora una volta sola con se stessa e la sua unica speranza è nella futura vittoria degli Oakland Athletics che Beane aspetta dal 1998.

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Peasyfloyd (ha votato 8 questo film) alle 23:00 del 14 agosto 2012 ha scritto:

analisi convincenti per un film altrettanto valido e solido. Calzante il paragone con "Il maledetto United". Pitt davvero eccezionale. Pensavo fosse una panzana sto film. Mi son dovuto ricredere