Invictus regia di Clint Eastwood
DrammaticoSconfitto l'apartheid, Nelson Mandela, capo carismatico della lotta contro le leggi razziali, diventa presidente del Sudafrica grazie alle libere elezioni. Anche il mondo dello sport viene coinvolto dall'evento: il Sudafrica si vede assegnato il mondiale di Rugby del 1995 e sulla scena internazionale ritornano gli Springboks, la nazionale sudafricana dagli anni '80 bandita dai campi di tutto il mondo a causa dell'apartheid. Il rugby, infatti, è sempre stato lo sport più seguito dagli Afrikaner e ai cittadini sudafricani di colore veniva riservato negli stadi un misero settore, di solito occupato per tifare la squadra avversaria. In occasione della cerimonia di apertura del campionato mondiale, l'ingresso in campo del presidente Mandela che indossa la maglia di jersey degli Springboks segna un passo decisivo nel cammino verso la pace tra bianchi e neri. A collaborare con lui a questo progetto di integrazione e pacificazione attraverso lo sport, Francois Pienaar, il capitano della nazionale Sudafricana.
Come da attore, nel suo celebre ruolo di pistolero, Clint Eastwood puntava diritto al cuore del suo nemico, da regista punta diritto al cuore dello spettatore. Nei suoi capolavori precedenti come Mystic river, Million dollar baby, Lettere da Iwo Jima, Gran Torino, Eastwood costruisce il film attraverso una struttura che pone lo spettatore di fronte a un crescendo di emozioni, fino a scatenare in lui una reazione tanto forte da rendere difficile trattenere le lacrime. Nel suo ultimo lavoro, Invictus, Eastwood adopera lo stesso schema, questa volta però correndo il rischio di non riuscire a scatenare nella totalità dei suoi spettatori le emozioni che vorrebbe: la storia che egli rappresenta infatti ha il grande limite di essere strettamente legata ad uno sport non alla portata di tutti, il rugby.
Eastwood, come già ha fatto con Lettere da Iwo Jima e Flags of our fathers, esce dalla narrazione di storie particolari che aspirano all’universalità, per rappresentare la Storia nel suo aspetto universale: l’enorme lavoro di riconciliazione sociale nel Sudafrica dell’apartheid compiuto da Nelson Mandela con il fondamentale aiuto del rugby. Di fronte a una nazione lacerata al proprio interno da un odio atavico tra bianchi (“africaner”) e neri, in una condizione nella quale anche la politica è impotente, c’è un solo modo per riunire ogni singolo individuo sotto una bandiera: un nemico comune.
Nelson Mandela però, convinto pacifista dopo la riflessiva esperienza del carcere, è cosciente che non c’è bisogno di altra violenza per eliminare l’odio, ma che tuttavia una guerra sia necessario che l’intero paese sudafricano la combatta per trovare unità: egli individua nel rugby il campo della sua guerra e nella squadra nazionale del Sudafrica il proprio esercito irregolare. Il rugby, concepito dai neri come sport esclusivo dei bianchi (considerato dai bianchi “sport selvaggio praticato da nobili” e dai neri “sport da duri praticato da signorine”), simbolo fino ad allora della divisione intestina al Sudafrica, viene sottoposto allo sforzo di Mandela, che, facendo fare dei tour nelle bidonville alla squadra nazionale, riesce a farne una passione anche per la popolazione nera.
Una volta stimolata l’unione, è allora necessario un evento che la sancisca definitivamente, uno scopo che sia comune a tutti, come potrebbe esserlo un nemico: questo è la coppa del mondo di rugby. Un nobile sport guerriero si trasforma in una nobile guerra sportiva, una battaglia che riesca ad unire sotto la bandiera sudafricana un intero popolo nella sua insanabile diversità, un popolo “arcobaleno”, nel modo in cui nessuna fatica politica, né alcuna guerra, sarebbero in grado di fare. Ma vincere la coppa del mondo è realisticamente un’impresa tanto difficile quanto quella di riunire il paese, e per raggiungerla Mandela deve trovare un interlocutore che lo rappresenti all’interno della squadra, che sia, come lui è la guida politica e spirituale dello stato, la guida sportiva della squadra, un “capitano”: si tratta di Francois Pieneaar.
In lui Mandela infonde la consapevolezza della propria volontà, la padronanza di sé e del proprio destino, la cifra di un’invincibilità (invictus) che ha portato lui stesso a sopravvivere ai trent’anni di reclusione forzata e che, al modo in cui egli cerca di alimentarla nel suo “popolo arcobaleno”, anche Pieneaar infonde nella sua squadra. Nel gesto del capitano della nazionale che leva al cielo la coppa del mondo, finalmente si apre l’arcobaleno che Mandela aveva utopicamente cercato: bianchi e neri si abbracciano tra loro sotto una bandiera che era stata il simbolo di un’oppressione e di una guerra civile degli uni contro gli altri, un’intera nazione di quarantasei milioni di persone non ha più colore della pelle che non sia quello della bandiera sudafricana.
Le storie particolari di Eastwood, quelle sull’integrazione, sull’eutanasia, sulla vendetta e il rimpianto, colpivano lo spettatore perché lo trascinavano dentro sé stesse fino a costringerlo all’immedesimazione. Anche in Invictus lo spettatore cammina tra le bidonville, visita il carcere dove Mandela è stato recluso, entra nello stadio dove si disputa la finale della coppa del mondo, esulta, sente il cuore gonfiarsi nel momento glorioso dell’ultima meta, è egli stesso un membro della popolazione arcobaleno del Sudafrica.
In questo il regista è aiutato da un lavoro perfetto compiuto dai suoi due attori principali: Morgan Freeman compie una recitazione esemplare della figura di Nelson Mandela, rappresentando meravigliosamente il volto ferito dalle cicatrici del passato, riflessivo, pacato e allo stesso tempo deciso nelle sue convinzioni; Matt Damon, nel ruolo di Francois Pieneaar, è convincente forse più che in ogni sua altra interpretazione dai tempi di Will hunting - Genio ribelle”. Eppure il limite al quale Eastwood va incontro è quello di rappresentare sullo schermo l’emozione di una partita di rugby, di far passare necessariamente, dato il tema di cui tratta, le emozioni attraverso il filtro di immagini nelle quali non tutti gli spettatori riescono ad immedesimarsi, perché non tutti sono padroni di questo sport, e si crea in questo modo una barriera che impedisce di raggiungere quell’apice emotivo nel quale le lacrime sono difficili da trattenere.
Paradossalmente la storia universale diventa più particolare di quanto non siano quelle tratte dalla vita quotidiana e un film che racconta l’unione, la comunione e l’uguaglianza, rischia di trasmettere un’emozione esclusiva.
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