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8/10

A Most Violent Year regia di J.C. Chandor

Drammatico
recensione di Fulvia Massimi

New York, 1981. Nell’anno piú violento nella storia della cittá, Abel Morales (Oscar Isaac), ambizioso proprietario di una compagnia di trasporto petrolifero, ha trenta giorni per chiudere l’affare della vita. I concorrenti non si faranno tuttavia scrupoli ad ostacolarlo, cosí come il detective Lawrence (David Oyelowo) ad esporne le presunte irregolarità fiscali. Spronato dalla moglie (Jessica Chastain) a difendere business e famiglia, Abel dovrà decidere se restare fedele al proprio credo o se sacrificare la propria integrità morale sull’altare del successo. 

È stata definita una delle selezioni più sessiste ed etnocentriche degli ultimi anni, specialmente dopo l’esclusione di Ava Duvernay dal palmares dei potenziali migliori registi e l’inclusione, “per consolazione”, di Selma nella corsa al miglior film, ma a far notizia sono stati anche, e soprattutto, i “grandi snobbati”Jennifer Aniston e Jake Gyllenhaal per le rispettive interpretazioni in Cakee Nightcrawler. Peccato che uno degli esclusi più illustri dell’imminente 87esima edizione degli Oscar non abbia ricevuto il medesimo trattamento mediatico.

Opera terza di J. C. Chandor, promessa (ormai più che mantenuta) della New New Wave americana quanto Bennett Miller e James Gray – al cui stile sembra qui ispirarsi in modo particolare – A Most Violent Year subisce l’ingiusta indifferenza dell’Academy ma non della critica, che vede nell’ultimo film del regista statunitense la conferma di un talento già pienamente espresso con i precedenti Margin Call (2011) e All is Lost (2013).

 

A.O. Scott sul New York Times lo ha considerato il capitolo conclusivo di una potenziale trilogia intitolata “The Soul of Man Under Capitalism”, iniziata con uno dei ritratti più terrificanti, nella sua spietata precisione, delle corporations sull’orlo della crisi economica, e continuata in modo più intimista con la parabola, non meno spaventosa ma quantomeno aperta alla speranza, di un uomo lasciato a se stesso nella solitudine letale del mare aperto.

Come i “coetanei” Paul Thomas Anderson, Bennett Miller e James Gray, ma con un’agenda più precisa e sistematica (un film ogni due anni esatti, una buona media in termini hollywoodiani), Chandor aspira allora a raccontare un brandello d’America attraverso la cornice della ri-costruzione storica di stampo finzionale. E come nel cinema di Gray in modo particolare, la New York degli americani “d’importazione” (immigrati o cittadini di seconda generazione) fa da sfondo ad una storia di violenza e corruzione, quasi un western contemporaneo o un gangster film fuori-tempo, che tuttavia sfida le aspettative di genere attraverso la costruzione di un personaggio dalla statura morale apparentemente intoccabile.

Portato in vita dall’interpretazione solidissima di Oscar Isaac (che per due anni di fila si guadagna l’appellativo di “Oscar snub” per eccellenza, eppure non batte ciglio), Abel Morales incarna infatti il prototipo di un eroe inatteso, che alla via facile preferisce l’ostinazione del duro lavoro, alla rivendicazione violenta il confronto pacato (ma spietato), alla virilità ostentata e armata (per compensazione) la mascolinità razionale che alla supremazia fisica preferisce quella dell’intelletto. Non è allora tanto “Mr. Fucking American Dream” – come lo definisce con sarcasmo la consorte – ad incarnare il vecchio adagio de “il fine giustica i mezzi”, quanto piuttosto la moglie-virago (ma non pazza, chiosaJessica Chastain, che di paragoni con la Lady MacBeth shakespeariana non vuol sentir parlare), cui il lavoro sporco sembra non dispiacere – almeno fino alle sue più drastiche conseguenze.

Costruito secondo la traiettoria inversa di un dramma di redenzione, quello di Abel (nomen omen) è piuttosto il percorso di progressiva corruzione di un uomo che ha fatto del lavoro onesto il proprio vanto, ma a cui in realtà sembra sfuggire il significato pieno del concetto stesso di “onestà”, al punto da ignorare le conseguenze fatali della propria realizzazione personale sui più deboli (l’autista Julian/Elyes Gabel). E non è certo un caso che il setting storico del film coincida allora con “l’anno più violento” del titolo, quasi che l’entropia senza barriere della New York in preda ad un rigurgito di gangsterismo possa offrire l’unica ambientazione possibile all’alterazione del principio del “più giusto” professato da Abel nelle sequenze finali del film.

Pellicola dagli altissimi imperativi categorici di respiro kantiano, A Most Violent Year beneficia dell’impressionante (capo)lavoro di Bradford Young alla fotografia per esplicitare la pregnanza del suo afflato morale non solo a livello narrativo, ma anzitutto visivo. Alla luminosità tagliente e paradossalmente inquietante del riverbero invernale si affianca infatti un’oscurità ingombrante, a tratti debilitante per l’occhio dello spettatore, cui non è consentito decifrare ciò che si agita nel buio: nell’alternanza di luci e ombre si esplicita allora la lotta interiore del Bene e del Male, che sul volto di Anna Morales (quasi sdoppiato in termini luministici) stabilisce il proprio piano d’esistenza.

Dopo aver sperimentato la riuscita di un film di “pura” scrittura (Margin Call) ed uno di “pura” regia (All is Lost, praticamente privo di dialoghi), Chandor trova in A Most Violent Year il punto d’incontro di entrambi, arrivando a realizzare, forse, la sua opera più compiuta. La tenuta dell’impianto tragico e perfettamente calibrato della sceneggiatura – firmata dallo stesso regista – si accompagna al rigore formale di una messa in scena calcolata al dettaglio, in cui la claustrofobia degli spazi unici dei film precedenti lascia il posto all’esplorazione di una geografia urbana non meno metafisica, specialmente nelle scene d’inseguimento mozzafiato tra strade pressochè deserte e colonne alienanti di automobili in coda, in cui le musiche dal sapore western di Alex Ebert risuonano minacciose.

Ritrovare il cinema di Chandor, sorpresa prima ancora che promessa della produzione americana “d’autore” degli ultimi anni, è allora come ritornare a casa dopo un lungo viaggio e riscoprirvi il conforto delle certezze domestiche. Allo scorrere dei titoli di coda si ha l’impressione di aver assistito a qualcosa di compiuto e compatto, un film che non è solo prova di ottimo cinema ma anche dimostrazione di grande consapevolezza registica e narrativa, e che del riconoscimento vuoto della statuetta di rito non se ne farebbe comunque un granchè.

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