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8/10

Espiazione regia di Joe Wright

Drammatico
recensione di Fulvia Massimi

Nella torrida estate del ’35 la tredicenne Briony Tallis si rende testimone involontaria della nascita di un amore e della perpetuazione di un crimine. Il fraintendimento degli eventi – dovuto alla sua giovane età e alla fervida fantasia – distruggerà le vite del promettente Robbie e della sorella di Briony, Cecilia. Sessant’anni più tardi, oltre gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, arriverà per la scrittrice, ormai prossima alla morte, l’occasione di redimersi.

Adattare per lo schermo un grande romanzo non è mai impresa facile ma Joe Wright non sembra avere problemi in proposito, tale è la maestria con cui, sotto la sua direzione, la materia letteraria scivola dietro e oltre la macchina da presa per farsi immagine e perdurare nel tempo.

Il regista di Orgoglio e Pregiudizio – splendido esordio da quattro nomination agli Oscar del 2006 – non ama rendersi la vita facile e per il suo secondo lungometraggio sceglie di confrontarsi con l’opera di uno degli scrittori britannici più prolifici sulla carta come al cinema: Ian McEwan.

Il suo Espiazione - grandioso affresco dell’Inghilterra a cavallo tra anni ’30 e ’90, capace di fondere magnificamente melodramma storico-sentimentale e thriller mozzafiato – non è soltanto un romanzo sublime, frutto di una prosa impeccabile e impregnata di valori sensoriali in grado di rendere la realtà del racconto pienamente accessibile, nonchè perfettamente visualizzabile. La difficoltà insita nell’opera di McEwan va ricercata piuttosto nella sua natura meta-letteraria, nella riflessione attenta e in parte autoreferenziale sul mestiere dello scrittore, sulle gioie e sui turbamenti che trovano modo di esplicarsi nel personaggio della giovanissima Briony, sconvolta da sensazioni che le appaiono per la prima volta come rivelazioni impossibili da contenere.

Come Stephen King prima di lui (sia Shining di Kubrick che Misery non deve morire di Reiner affrontano brillantemente il medesimo ostacolo), anche McEwan mette alla prova il talento registico di quei cineasti che scelgono di cimentarsi con i suoi lavori – spesso ottenendo risultati poco lusinghieri (è il caso di Cortesie per gli Ospiti di Schrader e Lettera a Berlino di Schlesinger). Non è certamente questo il caso di Wright, la cui filosofia registica – improntata ad una rigorosa composizione dell’immagine e ad un’attenzione particolare rivolta al coordinamento di valori luministici e sonori – ben si sposa con la costruzione geometrica e disciplinata dell’ottavo romanzo di McEwan.

Un aiuto non indifferente proviene al regista inglese dal drammaturgo e sceneggiatore premio Oscar (per Le Relazioni Pericolose) Christopher Hampton, autore di uno script – a sua volta candidato agli Oscar del 2008 – estremamente fedele al materiale di partenza, a cominciare dalla suddivisione in quattro parti presente nel libro e alla moltiplicazione dei punti di vista, infine convergenti in quello della sola voce narrante: Briony. È grazie a lei che la riflessione sullo statuto ambiguo dello scrittore può esprimersi, aiutando Wright a sciogliere il nodo problematico della differenza mediale tra letteratura e cinema: il monologo conclusivo, splendidamente recitato da Vanessa Redgrave, si trasforma da soliloquio ad accorato e commovente appello in diretta tv (non a caso, un medium visuale), rivolto non più al solo lettore – interpellato nell’intimo della sua fruizione privata – ma anche allo spettatore in sala, che si trova nella posizione privilegiata di conoscere infine la verità.

Che cosa è giusto raccontare: la realtà squallida e angosciante di ciò che è stato o la fantasia rassicurante di ciò che sarebbe dovuto essere e non è mai accaduto? L’importanza della verità, contraltare di una colpa che distrugge e annichilisce non solo chi ne è vittima ma anche chi ne è autore, resta racchiusa nella domanda: una domanda scomoda che pesa come un fardello e in cui Briony cerca di trovare il conforto dell’espiazione del titolo. Lavorando di concerto con il montatore Paul Tothill (presenza fissa della sua filmografia), Wright percorre l’intreccio approntato da Hampton (con qualche leggera variazione rispetto al romanzo), al fine di rispondere a tale quesito.

Il sentimento di un tempo effimero, mai veramente vissuto e sempre rincorso da due amanti – Cecilia e Robbia – separati troppo presto, permea allora la pellicola tanto a livello narrativo che discorsivo, attraverso un lavoro sul suono che ne sottolinea l’incalzare ritmico così come la precarietà. Il pisano Dario Marianelli, alla sua seconda collaborazione con Wright, firma a tal scopo una colonna sonora – premiata con l’Oscar – che sarebbe piaciuta all’hitchcockiano Bernard Hermann, per l’abilità che il musicista italiano dimostra nel saper integrare melodie tradizionali con un uso originale e innovativo di sonorità “artificiali” (il battito forsennato dei tasti sulla macchina da scrivere come leitmotiv del personaggio di Briony e del suo dono funesto).

La realtà tattile, olfattiva, gustativa, oltre che visiva e acustica, della prosa di McEwan trova così il suo compimento in una pellicola che, pur ridimensionandone la portata (l’estenuante marcia di Robbie in fuga dalla Guerra, ad esempio, viene drasticamente compressa) per ovvie ragioni di sintesi cinematografica, non ne tradisce il valore. I tocchi impressionisti di luce e colore, le più lievi sfumature emotive, gli sguardi e le inflessioni di voce racchiuse nelle pagine del romanzo prendono letteralmente vita, e i personaggi così mirabilmente tratteggiati conservano tutta la loro profondità psicologica grazie ad un cast d’altissimo livello, in particolare i due protagonisti – Keira Knightley (già Elizabeth Bennet in Orgoglio e Pregiudizio) e il talentuoso James McAvoy - e le tre “versioni” di Briony: Saoirse Ronan (ancora con Wright in Hanna), Romola Garai e la Redgrave.

Pur lasciandosi trasportare dalle atmosfere cariche di pathos e di tensione racchiuse nella storia narrata, Wright mantiene ben saldi i principi della sua filosofia autoriale, costruendo l’inquadratura con la puntigliosità di un architetto e il gusto cromatico di un pittore, attento a non concedersi soluzioni troppo ardite se non ne detiene il perfetto controllo: il lungo pianosequenza che abbraccia la disfatta dell’esercito inglese, prossimo alla ritirata sulla spiaggia di Dunkerque, non sarà “memorabile” - come afferma ironicamente Mereghetti – ma ha certamente il pregio di condensare in un solo sguardo lo stravolgimento e l’amarezza di una situazione che richiederebbe (e ha richiesto) pagine per essere raccontata.

Sarebbero sufficienti i primi cinquanta minuti di film per capire in che modo il regista di Espiazione possa fregiarsi – a fronte di una carriera appena agli esordi – di una piena padronanza della pratica filmica, applicata ad un processo ostico come l’adattamento letterario: le sequenze, cariche di sensualità e suspense, ambientate a villa Tallis, sembrano prorompere direttamente dalle pagine del romanzo, con una fedeltà resa ancor più lodevole dal fatto di non voler mascherare lo sguardo personale che si cela dietro di essa. Ma il finale – unica concessione ad uno “stravolgimento” dell’originale – vale la pena di essere visto.

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Voto degli utenti: 8,8/10 in media su 4 voti.
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ROX 9/10
alexmn 9/10

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ROX (ha votato 9 questo film) alle 8:36 del 16 settembre 2011 ha scritto:

adoro questo film e l'interpretazione degli attori, l'intreccio del film lo preferisco persino a quello del romanzo, le modifiche fatte lo rendono più fluido e più adatto ad una proiezione

Peasyfloyd (ha votato 9 questo film) alle 19:39 del 16 settembre 2011 ha scritto:

davvero un'opera eccezionale. Complimenti a Fulvia per la splendida analisi. Il Mereghetti e il loro snobismo se ne possono andare in quel posto per quanto mi riguarda

hayleystark, autore, alle 22:11 del 17 settembre 2011 ha scritto:

Quoto. I critici che spoilerano, stroncano e sono volontariamente stitici di stelle, stellette, palline e compagnia cantando, hanno veramente rotto...l'anima.

alexmn (ha votato 9 questo film) alle 0:48 del 19 settembre 2011 ha scritto:

mereghetti parla, come si dice, perchè ha la bocca. ha fatto il suo tempo e dovrebbe ritirarsi. wright è davvero un gran bravo regista e il pianosequenza è tecnicamente da storia del cinema!