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6/10

La Custode Di Mia Sorella regia di Nick Cassavetes

Drammatico
recensione di Fulvia Massimi

Quella dei Fitzgerald potrebbe sembrare una vita perfetta: una bella casa losangelina immersa nel verde, un quadretto familiare inappuntabile: due genitori (Sara e Brian) presenti e premurosi, tre figli adolescenti (Kate, Jesse e Anna) non problematici. O quasi. Perchè Kate ha la leucemia e non c’è niente che a Sara interessi di più che salvare la vita di sua figlia. Per questo è stata concepita Anna, ultimogenita nata in provetta con l’unico scopo di donare alla sorella tutto il necessario per farla sopravvivere. Ma per l’undicenne è arrivato il momento di dire basta: stanca di fare la “cavia”, la ragazzina si rivolge al popolare e affermato avvocato Campbell Alexander per fare causa ai genitori. Sara, ex-avvocatessa, sarà costretta a tornare in aula per scontrarsi con la figlia.

Tratto dal bel romanzo omonimo di Jodi Picoult, My Sister's Keeper (nella fedele traduzione italiana: La custode di mia sorella) – sceneggiato da Jeremy Leven e Nick Cassavetes e diretto dallo stesso Cassavetes – si prefigge l’arduo obiettivo di gettare nuova luce su un tema ostico come quello della malattia terminale, che rischia di suscitare troppo spesso inutili sentimentalismi, specialmente in campo cinematografico. È purtroppo questo il caso, ed è curioso vedere come un regista capace di affrontare la riflessione su malattia e morte da una prospettiva inconsueta (è il caso della donazione di organi e della critica alla sanità americana  in John Q), trasformi un romanzo potente – per spessore di personaggi e trama – in una pellicola melodrammatica e banale che strizza l’occhio allo spettatore dalla lacrima facile.

Cassavetes sembra seguire, almeno inizialmente, l’espediente narrativo proposto dalla Picoult: far prendere la parola, o meglio, il pensiero ad un narratore di volta in volta differente, così da presentare, all’interno del romanzo, e del film, la complessità dei vari punti di vista. Ma mentre nel romanzo il ruolo di Kate è relegato a figura di sfondo, di cui tutti parlano e di cui tutti si preoccupano ma che prende voce solo nell’ultimo capitolo, nella pellicola diventa il personaggio centrale, così come centrale è il dramma della sua malattia, la nausea, il sangue, le ecchimosi, il cranio rasato (scelta coraggiosa della giovanissima Sofia Vassilieva, capace di rendere solare, ma non stucchevole, un personaggio che avrebbe ben poche ragioni di esserlo) e soprattutto la continua, incessante, quasi patologica lotta di Sara (Cameron Diaz), impegnata nell’ostinato ruolo della “madre cazzuta che non molla mai”.

Scivola impietosamente in secondo piano il nucleo portante della storia, il problema etico dell’emancipazione medica e della capacità di una ragazzina undicenne di decidere cosa fare del proprio corpo, in bilico tra la sofferenza della persona più cara e la propria. Il processo, molto più ampio all’interno del romanzo, si riduce a un paio di scene, a causa dei pesanti tagli operati dalla sceneggiatura. Trova spazio l’atipica storia d’amore tra Tylor e Kate, entrambi malati di cancro, destinata a concludersi malamente, eppure idealizzata, lontana dal reale, dall’amara tenerezza tratteggiata dalla Picoult (l’immagine dei due innamorati che ballano con le mascherine sulla bocca e i cateteri infilati nel petto). E trovano spazio i ricordi (il cranio rasato della madre, la dislessia di Jesse, le smorfie davanti alla macchina fotografica), rievocati in lunghi flashback e legati ai collages fotografici realizzati da  Kate per ricordare la sua vita passata giunta ormai al termine.

Completamente dimenticata la travagliata relazione sentimentale tra Campbell e il vecchio amore del college Julia Romano, nel romanzo tutrice ad litem di Anna. Sfuma così un altro degli elementi più suggestivi della narrazione, che avrebbe consentito di approfondire una figura complessa e tutt’altro che scontata come quella dell’avvocato tutto d’un pezzo che nasconde un misterioso segreto (e a cui Alec Baldwin, tra l’altro, assomiglia ben poco). Certo, nessuno stravolgimento è peggiore di quello adottato nel finale, vero colpo di genio della Picoult e unico coup de théâtre in grado di risollevare una sceneggiatura fiacca, una storia già vista e rivista. Si finisce invece con un prevedibile trionfo di facile retorica e buoni sentimenti.

Cassavetes sa attuare scelte visive interessanti: molto suggestivi i titoli di testa che scorrono sulle immagini in movimento della vita felice dei Fitzgerald, ricordi  sfogliati come le pagine di un libro e la voce di Anna in sottofondo, a raccontare il suo destino di bambina nata non dal caso ma dalla scienza, mentre flash di ovuli e spermatozoi si susseguono rapidi come battiti di ciglia. Ma la sequenza sulla spiaggia, che dovrebbe rappresentare l’ultimo desiderio realizzabile, l’apice di quella dolorosa felicità rappresentata dagli ultimi giorni di vita, si trasforma in un’interminabile clip musicale, di sorrisi e giochi tra le onde, abbondantemente condita da quella luce morbida e patinata che rende fantastica la perfetta colazione in famiglia di molti e ben noti spot pubblicitari. Il buonismo trionfa e non si riesce a capire da che parte si debba stare, se da quella di Anna ragazzina stanca di essere usata, desiderosa di essere amata, o da quella di Sara, madre troppo spaventata dal dolore della morte per non accorgersi di sfruttare un figlio non voluto.

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