Hanna regia di Joe Wright
AzioneAllevata in cattività dal padre e addestrata per diventare una perfetta macchina da guerra, la sedicenne Hanna si dichiara pronta ad uscire nel mondo e fronteggiare l’agente dell’Intelligence Melissa Wiegler, da lungo tempo sulle sue tracce. Lo scontro con la realtà esterna si rivelerà più intenso del previsto, spingendo Hanna oltre le sue capacità e rivelandole sconvolgenti segreti.
Dopo aver tenuto testa con successo a due mostri sacri della letteratura britannica come Jane Austen (Orgoglio e Pregiudizio) e Ian McEwan (Espiazione), il londinese Joe Wright si cimenta per la prima volta con una sceneggiatura originale, firmata dai semi-esordienti David Farr e Seth Lochhead (autore della story), un thriller cosmopolita e ultra-moderno che, però, come un romanzo ottocentesco, porta il nome della sua protagonista: Hanna.
La diciottenne irlandese Saoirse Ronan - che con Wright aveva già lavorato sul set di Espiazione, vestendo i difficili panni della giovanissima sabotatrice Briony – è la scelta perfetta per incarnarla: un cherubino dagli occhi di ghiaccio, asessuato e pre-babelico (se la cava egregiamente perfino con l’arabo), dotato di forza sovrumana ma sprovvisto di quelle doti che rendono un essere umano.
Amicizia, amore, compassione, sono sentimenti che non possono trovare spazio nella vita di chi ha per mantra personale “adattati o muori”, eppure il viaggio di Hanna al di fuori della casa “paterna” ha lo scopo non di prepararla a ciò che la attende (lo scontro fatale con l’atavica antagonista Marissa Wiegler – una Cate Blanchett algida e spietata) quanto piuttosto a tutto ciò che non avrebbe potuto prevedere: la scoperta, scioccante e imprevista, della propria umanità, nel momento stesso in cui la scienza vorrebbe ribadire il contrario.
Prima ancora di affrontare la delicata questione etica delle mutazioni genetiche e degli esperimenti embrionali condotti a tavolino in laboratorio (e supervisionati dall’Intelligence americana), la pellicola di Wright si trova a fare i conti con le problematiche universali dell’essere adolescenti – sperimentare sensazioni nuove e sconosciute, crescere in un corpo che si percepisce come “anormale” - vissute sulla pelle di un personaggio che rompe il proprio isolamento per affacciarsi su un mondo che non è affatto quello delle fiabe raccontate dai Grimm.
Quella di Hanna è una figura sospesa, schiacciata tra una vita adulta conosciuta troppo presto e troppo in fretta - attraverso la lotta, la violenza, la morte (riflessa negli occhi di un cervo agonizzante) - e un’indole infantile che la spinge ad osservare (e ascoltare) le cose con la curiosità ed il timore di un bambino. “A volte anche i bambini possono essere persone cattive” ma la crudeltà fredda, chirurgica, cui Hanna è stata istruita ad obbedire (e che ha acquisito col tempo la forma di un riflesso incondizionato) è semplicemente uno strumento di autodifesa, l’unico conosciuto per tutelarsi da qualunque minaccia vera o presunta, al punto che perfino la scoperta dell’altro sesso (ma anche dello stesso) finisce con l’assumere le dimensioni di un conflitto, un’opzione di scelta tra l’abbattere il nemico e il lasciarlo sopravvivere.
Come si può affrontare il peso di un’esistenza braccata quando si deve combattere anzitutto con se stessi e con la metamorfosi di un corpo che porta in una direzione diversa da quella inscritta nel proprio DNA? Come si può vivere liberamente quando non si hanno gli strumenti giusti per farlo? La story di Lochhead cerca di fornire una risposta, lasciando infine allo spettatore la possibilità di dirimere una questione antica come il mondo ma declinata nel tempo nelle sue molteplici varianti: amore o dovere, genetica o sentimento, stato sociale o stato di natura?
Sebbene Philip K. Dick (e il cinema che ai suoi romanzi si ispira) insegni che anche gli androidi hanno un cuore, Hanna non può essere considerata tale e, a dispetto dell’educazione ricevuta, non si può fare di lei una bestia, una creatura inumana, né tantomeno uno dei ragazzi selvaggi, bambini-lupo, indagati dalla linguistica (le sue abilità in materia sono fin troppo avanzate): Hanna è allora un essere vivente cui la scienza ha donato (o inflitto) un potere troppo rischioso e che, pertanto, se non può essere mantenuto al riparo dagli occhi indiscreti del mondo deve essere debellato.
Ed è qui che il film di Wright si rivela capace di sfruttare al meglio le potenzialità ritmiche del thriller, trasformando progressivamente la traiettoria della sua protagonista in una fuga rocambolesca, proiettata verso il ricongiungimento finale di due personaggi che non possono esistere senza annientarsi ed escludersi a vicenda. Il regista britannico centra allora l’obiettivo mancato con The Soloist: raccontare la contemporaneità con la stessa sensibilità e lo stesso gusto estetico degli esordi, dimostrando di sapersi trovare a proprio agio nel presente come nel passato.
Il ripensamento in chiave post-moderna del cinema espressionista tedesco si rivela dunque la chiave attraverso cui far passare i valori di una modernità cinematografica dal sapore apertamente europeo: il lavoro operato da Wright e da Alwin H. Kuchler alla fotografia – complice anche la strepitosa colonna sonora composta ad hoc dai The Chemical Brothers – si propone infatti di enfatizzare l’integrazione dei valori visivi e sonori, al fine di recuperare un’estetica filmica ben precisa.
L’uso reiterato della plongée, la valorizzazione geometrica degli spazi – con una predilizione per la figura concentrica (la sequenza dell’inseguimento all’interno della base CIA ne è una chiara, e ben riuscita, dimostrazione) – e la scelta di cromie fredde altamente contrastate, unite alla natura “sintetica” della soundtrack elettronica, aggiornano al ventesimo secolo il cinema di Fritz Lang, in particolare M – Il mostro di Dusseldorf, grande classico noir che Wright sembra avere ben in mente.
La Berlino periferica, degradata e metafisica in cui i personaggi convergono nel finale non può che richiamare alla mente quella scelta dal regista tedesco per il suo primo film sonoro (a dispetto del titolo italiano, erroneamente “tradotto” per affinità con la cronaca d’epoca), così come la figura patologica e sessualmente ambigua del killer Isaacs (Tom Hollander) non può non ricordare, con il suo fischiettio insistente (un’inquietante melodia originale del duo inglese e non più il celeberrimo brano di Edvard Grieg), il “mostro” interpretato da un indimenticabile (e altrettanto disturbante) Peter Lorre. Le atmosfere grottesche, surreali e violente delle sequenze ambientate nella casa da incubo dei Grimm – con i suoi cromatismi esasperati che sembrano usciti da un quadro di Grosz – conducono la pellicola verso l’iperrealismo intollerabile della Nuova Oggettività anni ’20, concludendo coerentemente un percorso di revival estetico dagli esiti insolitamente affascinanti.
L’originalità dell’approccio registico di Wright - che con Hanna realizza il suo film più "sperimentale" - si dimostra allora essenziale per controbilanciare le sorti di una pellicola delicatamente perturbante, ovviando ai difetti di uno script perfetto nel delineare personaggi complessi e di difficile leggibilità (grazie a scelte di casting ineccepibili anche per i ruoli secondari) ma troppo debole nella sua conclusione aperta, una sceneggiatura che, nella sua frettolosa volontà di sintesi narrativa, rischia di vanificare gli sforzi di un encomiabile lavoro espressivo.
Tweet