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8/10

Under the Skin regia di Jonathan Glazer

Fantascienza
recensione di Fulvia Massimi

Una donna misteriosa e seducente (Scarlett Johansson) adesca giovani uomini per le strade di una cittadina scozzese, per farli poi scomparire senza lasciarne traccia. 

C’è chi lo ha definito, tra molte controversie, “l’erede di Kubrick”, e il londinese Jonathan Glazer non sembra intenzionato a rifiutare la prestigiosa quanto scomoda parentela. Tratta dal romanzo d’esordio di Michel Faber e in concorso a Venezia 2013, Under the Skinl’opera terza di Glazer (precedentemente alla regia di L’ultimo colpo della bestia e Birth – Io sono Sean) recupera infatti le disturbanti fascinazioni visive e sonore del Kubrick di 2001: Odissea nello Spazio per raccontare l’esperienza dell’essere umano attraverso gli occhi (o meglio, l’occhio) di chi umano non è, né sarà mai.

La sceneggiatura di Glazer e dell’esordiente Walter Campbell attinge al romanzo di Faber per ottenere una narrazione minimale, più lynchiana che kubrickiana nella voluta intenzione di generare domande ma non di offrire risposte. Le derive mostruose dell’universo fantascientifico di Faber vengono allora sacrificate alla messa in scena di una realtà inquietante e surreale, in bilico tra l’orrore e l’onirico, e volta al denudamento (metaforico e letterale) di una coscienza aliena alle prese con il desiderio, impossibile e dunque disperato, di esperire l’umano.

Laddove The Tree of Life di Terrence Malick aspirava a cogliere l’essenza universale del vivere umano, dalle prime cellule alla compiutezza dell’individuo, dai primi passi al violento impatto con la realtà, Under the Skin interroga piuttosto la “natura” del vivere alieno, dell’essere cioè mandati nel mondo senza libero arbitrio, con il solo scopo di assolvere una funzione dettata da altri. La cognizione del reale, ossia la percezione fenomenologica dell’”essere nel mondo” come Dasein heideggeriano, è allora per la creatura aliena incarnata da Scarlett Johansson un processo impossibile, giacché la nascita le è negata, e ad essa si oppone piuttosto la freddezza dell’assemblaggio meccanico e dell’apprendimento linguistico ottimizzato.

In questo senso, il film di Glazer rimanda piuttosto ai tropi cari alla tradizione dello sci-fi britannico à la Blade Runner (1982, Ridley Scott), o del più recente Non Lasciarmi (2010, Mark Romanek), dove la sofferenza dell’androide antropomorfo è al centro di un’angosciante prospettiva futuristica, e al clone perfetto creato per sopperire ai bisogni dell’umano imperfetto viene infine negata la possibilità di sottrarsi alla prospettiva terrificante di un’esistenza a scadenza limitata. Per l’alieno di Glazer la fascinazione per l’umano avviene tuttavia in lenta progressione: inizialmente compresa nel proprio ruolo di mantide religiosa, la “donna” fatale – indifferente di fronte alla morte orrenda e insensata di una famiglia innocente - trova invece nell’incontro con la deformità mostruosa di una vittima ignara la scintilla di un sentimento che trascende la pura funzionalità robotica.

La parabola predatoria della seduttrice senza nome, incaricata di far scomparire le proprie vittime nelle viscere oscure di un liquido amniotico che all’utero materno sostituisce piuttosto l’orrore della discarica, si trasforma allora nel viaggio breve e distruttivo dell’Altro alla ricerca di un Sé che non potrà mai esistere. La sensualità del corpo femminile a cui è tuttavia negata la conoscenza di ogni piacere sensoriale – e, insieme, la consapevolezza del proprio sesso – diventa così il simulacro di una condizione fittizia, una maschera, un involucro non vuoto, ma dentro al quale non vi è nulla di organico che possa consentire l’integrazione del diverso in un mondo popolato da corpi “veri”.

“Perché indossi quello stupido costume da uomo?” chiedeva il coniglio Frank a Donnie Darko nell’omonimo film di Richard Kelly, e la domanda risuona identica, e forse ancor più terrificante, nelle sequenze conclusive di Under the Skin, dove l’incertezza del titolo viene finalmente svelata. L’orrore non è allora racchiuso soltanto, né soprattutto, nel nero assoluto che inghiotte e risucchia gli ultimi residui di vita, ma piuttosto nella scoperta di ciò che si cela al di sotto della pelle lacera, e nell’ultimo sguardo dell’alieno al doppio di sé, distrutto dalla violenza ferina dell’uomo andros e non più anthropos, del maschio che prende infine la propria rivincita su quel corpo di donna che letale non è più, ma solo vittima.

Nel ventre della Scozia rurale – dove il leone rampante campeggia a simboleggiare un’indipendenza negata, e dunque, in parallelo, un’identità condannata ad essere “altra” - la città respinge e la natura fotografata magistralmente da Daniel Ladin non riesce a fondersi con la creatura che la scopre per la prima volta, se non in una fusione mortale. La precisazione delle coordinate spaziali, in cui si insinua la presenza – non casuale – dello spettro nazionalista, si impasta alla tendenza fantascientifica del luogo come “altrove” e “ovunque”, e dell’orrore come forza universale che potrebbe accadere in ogni tempo e in ogni dove. Il silenzio totale, e dunque tremendo, interrotto a tratti dalle musiche gravi ed inquietanti di Mica Levi, non lascia scampo, e consente alla performance di Scarlett Johansson di evolvere da pura fisicità (il corpo come oggetto di desiderio) ad esperienza emotiva, ultimo stadio nella parabola aliena verso l’acquisizione impossibile della condizione umana.

Narrativamente annichilente e visivamente conturbante, il film di Glazer potrebbe costituire un interessante diversivo per chi ancora rimpiange l’uscita di scena cinematografica di David Lynch e la frustrazione generata dagli enigmi surreali delle sue opere ultime. Nell’era cinematografica del post-post-moderno, dove alla crisi delle grandi narrazioni si affiancano ormai la crisi della visione in sala e dello spettatore capace di emozionarsi di fronte ad una novità che si fa piuttosto rimpasto e riciclo, la capacità di Glazer di stimolare interrogativi e al tempo stesso affascinare con l’impatto visivo di un cinema ancora in grado di essere innovativo, fa sicuramente parlare di sé. Che il regista inglese sia l’erede di Kubrick è un azzardo ancora troppo prematuro da confermare, ma la speranza, si sa, è l’ultima a morire.

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