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8/10

The Congress regia di Ari Folman

Animazione
recensione di Fabio Secchi Frau

  Conscia del fatto di aver fatto delle scelte lavorative sbagliate, l'attrice Robin Wright, decide di accettare l'ultimo ruolo offertole dalla major Miramount ed entrare così nella storia del cinema: la sua identità cinematografica verrà comprata, lei verrà digitalizzata e la sua immagine sarà utilizzata per recitare al suo posto sul grande schermo. Il costo di tutto questo è: smettere di recitare.

  Dopo anni, una Robin Wright ormai invecchiata, è invitata a un congresso ma, ciò che vivrà le farà rimpiangere maggiormente il passato...

   Robin Wright si ritrova ancora una volta sul grande schermo e il tutto dopo una scoppiettante alchimia televisiva con un mostro ormai sacro della recitazione come Kevin Spacey nel serial House of Cards e dopo una altrettanto seducente alchimia, stavolta cinematografica, con l’australiana Naomi Watts nello scandaloso (si fa per dire) Two Mothers (2013).

  A dirigerla, in un racconto sospeso fra la carne e l’animazione come The Congress è nientemeno che Ari Folman, magnifico regista nominato all’Oscar per Valzer con Bashir (2008).

  The Congress ha un inizio interessantissimo. È un film che, dalla premessa, sembrerebbe anti-hollywoodiano ma che lo è solo in apparenza, perché per il cineasta israeliano, le dinamiche hollywoodiane riguardanti il cruciale argomento dell’età delle attrici e della loro possibilità di continuare a essere protagoniste di un film, non sono altro che un paravento per una riflessione che si rivela essere molto più seduttiva per il nostro cervello e che conquista i nostri bulbi oculari, esaltando proprio quel fulgido talento che è la Wright.

  Folman non smarrisce quella che è la sua principale caratteristica - la profonda capacità di scandagliare filosofie umane nelle loro contraddizioni e sfumature, presentando personaggi disperati, a un bivio, a tratti miopi ma, sempre smarriti e dei quali è facile appassionarsi- e gioca con una storia tratta dal romanzo di Stanislaw Lem "Il congresso di futurologia", offrendo un film il cui punto di forza è la rappresentazione.

  Presentato in anteprima alla 66° Edizione del Festival di Cannes, come film d’apertura alla Quinzaine des réalisateurs, The Congress abbandona molto velocemente quella che è la storia base (di cui peraltro ci si innamora subito) per scrutare ed esplorare un sottotesto che contiene l’eco e le reminiscenze delle scelte che pesano nella vita di chiunque. In questo caso, il chiunque, è Robin Wright che, interpretando se stessa, è costretta a confrontarsi con il fatto che (e qualsiasi critico cinematografico sano di mente ve lo dirà) la sua carriera è stata molto promettente fino a La storia fantastica e Forrest Gump ma che, poi sia stata offuscata dalla stella del grande ex consorte Sean Penn e sia inciampata in una sedie di disdicevoli film che hanno portato il pubblico più giovane a dimenticarla. La scelta era fra l’oblio (visto che ha raggiunto un’età proibitiva per l’industria cinematografica Made in USA) oppure smettere di recitare per sempre ed entrare nella storia del cinema come la prima attrice digitalizzata. Ecco, dunque, la scelta contro la quale dovrà abbattersi la sventurata Wright e fare i conti con un tuttavia molto interessante passato nella settima arte.

  Quando ci si approccia a The Congress, si rimane colpiti da due aspetti in particolare. Il primo è lo stile. Imponente e maestoso, surreale, con la presenza di una donna che, seppur in cartone animato per gran parte del film, rimane prettamente umana, assolutamente affascinante, nella quale chiunque riesce identificarsi, nonostante il 90% della sua vita sia composto da una vita d’attrice che, sottilmente, è comunque costretta ad affrontare problematiche simili alle nostre. Il secondo è il linguaggio, assolutamente sintetico ma peculiare e, quindi, molto interessante, perché portatore di un messaggio ben specifico al pubblico contemporaneo.

 Robin Wright, che come ho già detto, trasforma in oro tutto quel che recentemente tocca, con questa scelta di brillante e strabordante imprevedibilità, offre nel ruolo di se stessa una forza silenziosa e gravida da talento puro. Non ci si poteva aspettare altro. Una prestazione volontariamente sottotono, rigida e che non trasmuta con l’evolversi dei fatti. La sua mimica facciale è poco screziata e si accende solo in poche rare occasioni. Si direbbe cinica e fredda, perché quasi mai percepiamo sulla sua pelle la fragilità di un passato, lo scivolare nell’ossessione più pericolosa e cieca per un’attrice (forse raramente ancora esplorata dallo spettatore) della fama e del lavoro di qualità.

  Ma ovviamente, l’aspetto più affascinante sta tutto in questa miscela di live action, tecnica mista e animazione in rotoscope. Un puro catalizzatore di interesse ed espressione della fantasia immaginifica e visivamente mefistofelica, cattiva, terribile e ambigua di Folman.

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