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5/10

Jimmy P. regia di Arnaud Desplechin

Drammatico
recensione di Fabio Secchi Frau

Alla fine della seconda guerra mondiale, Jimmy Picard, un nativo americano Blackfoot che ha combattuto in Francia, viene ricoverato nell’ospedale militare di Topeka, in Kansas - un istituto specializzato in malattie mentali. Jimmy presenta numerosi sintomi: vertigini, cecità temporanea, perdita dell'udito ... e astinenza. In assenza di cause fisiologiche, viene diagnosticato come schizofrenico. Tuttavia, la direzione dell'ospedale decide di chiedere il parere di Georges Devereux, un antropologo francese, psicoanalista e specialista in cultura dei nativi americani.

   Un racconto opaco che, malgrado sia inserito all’interno di una realtà psichiatrica risulta essere calmante, poco sanguinoso (nonostante sia cronologicamente vicino ai traumi causati dalla Seconda Guerra Mondiale ai soldati), senza alcuna rappresaglia emotiva verso lo spettatore, senza alcuna ferocia etnica.

  Un quadro ispirato a una storia vera, quello di Jimmy P., prima regia americana del francese Arnaud Desplechin, che era poco conosciuto e terrificante per certi versi, in quanto espressione di un vuoto assoluto della psiche umana, nonché degli effetti del caos e della violenza bellica senza limiti che, però, non si traduce in un film eccellente.

  Un mondo nel caso, continenti devastati, città intere rase al suolo, più di 35 milioni di morti ma, la distruzione del protagonista, Jimmy Picard, qui apaticamente interpretato da Benicio Del Toro, è solo fisica (a tratti diventa cieco o sordo) e solo dopo diventa psicologica, sociale, morale e politica, trovando una cura grazie all’intervento del medico francese Georges Devereux (lo straordinario Mathieu Amalric) che, pionieristicamente, cerca di rimettere ordine, legge e serenità. Ma tutto questo non viene ben espresso nella sceneggiatura che non decolla e che vira verso lo scontato, fino a compromettersi disperatamente.

  Non c’è trasporto, non c’è possibilità di comunicare veramente qualcosa allo spettatore, malgrado la fotografia e la scenografia facciano del loro meglio per essere un valore aggiunto. Per di più, la regia di Desplechin trova una difficile figurazione stilistica e in alcuni angoli della pellicola si sperde nel nulla, nonostante negli anni abbia accumulato stabilità e sia abbastanza robusta da potersi sviluppare anche fuori dalla propria nazione.

  Il selvaggio Jimmy, quindi, rimane poco selvaggio e, di conseguenza, poco oscuro e sconosciuto agli occhi dei presenti. Peccato per quella che è in assoluto la prima storia americana di un regista che si meritava di essere richiamato fra le fila degli autori europei nella prestigiosa Hollywood.

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