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6/10

Racconto di Natale regia di Arnaud Desplechin

Drammatico
recensione di Alessandro Pascale

Una famiglia eccentrica si ritrova alla vigilia di Natale per assistere la capofamiglia Junon, afflitta dallo stesso male che aveva stroncato tempo addietro il figlioletto. Sorgeranno vecchi rancori, sorrisi, rivelazioni amorose e dialoghi al limite del surreale

Quello di Racconto di natale è di fatto un inno alla gioia di vivere. Anzi meglio, un inno alla vita in sé. La quale ovviamente distribuisce equamente gioie e disgrazie. Non è una novità che Desplechin metta in scena i sentimenti e le emozioni. Tuttavia c’è da dire che mai come in questa opera egli cerchi di far quadrare il cerchio, di dare un senso assoluto e totalizzante alla bellezza di un atto sregolato, di una vita folle, di una famiglia (a)normale. La famiglia. Iniziamo da qui. Si avvicina il natale e si scopre che la madre-nonna (la sempre incantevole ed eccellente Catherine Deneuve) è colpita da un male che rischia di lasciarle pochi mesi di vita.

Le reazioni? Praticamente nulla, giusto due battute, in costante volontà di sdrammatizzare, di prendere l’evento come se si trattasse di una cosa da nulla, che non merita nemmeno di esser preso troppo sul serio. Inevitabile qualche pensiero alla ferma compostezza culturale de Le invasioni barbariche. Di qui una serie di momenti che a primo impatto sembrano freddi e irreali, ma che solo addentrandosi nella trama si capisce essere un adeguarsi ad uno stampo lineare e continuo: quello appunto di un’accettazione quasi stoica di ciò che riserva il fato, eterno tessitore dell’imprevedibile quotidiano. Una consapevolezza che però non blocca nessuno dei personaggi, mai proni ad accettare passivamente gli eventi ma sempre pronti a fare quanto è nelle loro possibilità.

È una famiglia un po’ pazza d’altronde quella dei Vuillard, con un pizzico di follia e di genio che permea tutti i suoi membri. Non siamo ai livelli dei Tenenbaum certo, e l’atmosfera è meno bloccata e nervosa dei drammi di Woody Allen, però tutto si può dire meno che la famiglia sia del tutto normale, per non dire che qualche artefatto di troppo sembra esserci. Così non si capisce né si capirà (volutamente inconcluso) il motivo di un dissidio incolmabile tra fratello e sorella, con tanto di silenzio e rottura totale di oltre cinque anni. E le ellissi non finiscono qua, tanto che alla fine dei conti nulla viene risolto nella trama circolare della storia.

Desplechin si interessa poco di chiudere le tante parentesi che apre qua e là. Quello che gli preme è di offrire uno splendido ritratto corale, con un gusto della narrazione squisito, a tratti fiabesco, sempre frizzante e ballonzolante con grazia tra i vari personaggi, senza perdersi in eccessivi sofismi e psicologismi. Questi anzi vengono lasciati in sospeso, appena abbozzati qua e là, gettati per incuriosire lo spettatore con le mentalità fragili e misteriose dei protagonisti. Ne esce un ballo sicuramente affascinante, eppure l’impressione è che ci si ritrovi a danzare ossessivamente in cerchio, senza riuscire a imboccare finalmente il grande salone di gala. Forse questo salone Desplechin non ha mai neanche pensato di imboccarlo, d’altronde non si riesce a pensare che nonostante tutto qualcosa manchi, che si potesse fare di più cercando il mordente necessario per chiudere in bellezza il racconto, invece di lasciarlo sospeso in una nuvola speranzosa nel futuro.

La stessa cosa si potrebbe dire della regia, lineare e un po’ nostalgica, con tutti i suoi rimandi ai trucchetti (ri)scoperti dalla nouvelle vague dei vari Truffaut e Chabrol. E forse un tantino troppo statica, nell’impressione costante di trovarsi davanti un’ottima pièce teatrale più che un prodotto cinematografico, con tutti i segreti della famiglia che nascono, vivono e muoiono quasi totalmente tra le mura del capofamiglia Vuillard. Pesa soprattutto la lunghezza eccessiva (150 minuti), a tratti estenuante. Un ballo senza fine, lo si è detto, ma la fatica non tarda a farsi sentire, e alla lunga condiziona tutta l’opera.

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