A Conciati per le feste, ovvero il senso del cinema italiano per il nulla

Conciati per le feste, ovvero il senso del cinema italiano per il nulla

 

Non mi hanno particolarmente convinto le proposte natalizie del nostro cinema, riferendomi, in attesa di visionare I 2 soliti idioti, a Tutto tutto niente niente e Colpi di fulmine, pellicole per certi versi similari nel risultato finale, la mancanza d’ una persuasiva resa cinematografica: se il primo film si fa forza di un titolo lungimirante sulla sua reale consistenza filmica, il secondo assomiglia tanto ad una proiezione-test, per valutare su quale tipo di comicità investire definitivamente, se quella più cialtrona, avvalorata però da anni d’esperienza, di Christian De Sica (pronto da tempo per ben altri ruoli, a mio avviso), e quella in certo qual modo più incentrata sul reale rispetto dei tempi comici e su un complementare lavoro di spalla, espressa in tal caso dal duo Lillo e Greg.

Premetto di avere sempre apprezzato la bravura di Antonio Albanese, più negli spettacoli teatrali o nelle apparizioni televisive che al cinema (eccezion fatta per Qualunquemente, a mio avviso la migliore espressione in tale ambito della sua visione sociale surreale e grottesca), ma con altrettanta franchezza non posso fare a meno d’esprimere un senso di profonda delusione per Tutto tutto niente niente. Diretto da Giulio Manfredonia, su sceneggiatura dell’attore e di Piero Guerrera, il film mi ha lasciato la brutta sensazione che quanto si volesse esprimere a livello di scrittura sia rimasto inerme sullo schermo, destinato a lasciare il tempo che trova una volta usciti dalla sala.

Il vivido fregolismo di Albanese, che si fa in tre, e la forza psichedelica resa da costumi e scenografie, si sostanziano alla fin fine in un ameno girotondo di sketch, sullo sfondo di uno scenario suddiviso, in precario equilibrio, tra il cabaret e il circense. Nulla possono le pur buone interpretazioni a contorno della narrazione, come quella del bravo Fabrizio Bentivoglio, nei panni di un subdolo sottosegretario, caratterizzazione più pacchiana che propriamente grottesca.

Venendo al plot narrativo, nelle sue linee essenziali, si delinea intorno le figure di tre individui che a breve conosceranno sia l’esperienza delle patrie galere, per diversi motivi, sia quella parlamentare, quest’ultima grazie al prodigo intervento del suddetto sottosegretario, braccio destro di un silente presidente del consiglio (Paolo Villaggio, apre bocca solo per rimpinzarsi), nell’emergenza di ovviare ad un ammanco della maggioranza parlamentare, ricorrendo ai primi nelle liste dei non eletti: Cetto La Qualunque, colluso sindaco calabrese, il veneto Rodolfo Favaretto, secessionista doc, che paventa una connessione con l’Austria (oltre ad una bretella autostradale che attraversi il suo paesello), addestrando un esercito d’immigrati clandestini, buoni anche come mano d’opera per restaurare la sua villa, il pugliese Frengo Stoppato, guru in erba, leader di un movimento dal programma a dir poco stupefacente, con sede in una non precisata isola, tornato in Italia richiamato dalla cattolicissima madre (Lunetta Savino), propensa ad adoperarsi perché venga proclamato beato in vita …

Manfredonia mi è parso piuttosto a disagio nel gestire quanto proposto da Albanese, tanto a livello di scrittura, quanto della visualizzazione relativa ai tre personaggi cui l’attore dà vita, per un risultato che fatica non poco ad acquisire un’efficace e plausibile valenza cinematografica, tra risate a denti stretti e caratterizzazioni alla fin fine piuttosto bonarie, anche se spesso piuttosto grevi, nascondendosi dietro il paravento di un politicamente scorretto manieristico (una scena su tutte, quella in cui Cetto va incontro alla sua prima disavventura sessuale) o reso così, tanto per gradire (le teorie di Frengo relativamente ai dogmi della Chiesa cattolica, urlate nel corso di una conferenza tra alti prelati), chiassoso ed eccessivo. La tanto declamata caratterizzazione delle stanze del potere, tra ecclesiastici in tiro, onorevoli togati e parlamento- stadio, appare debitrice, almeno questa è stata la mia impressione, dei primi due film su Fantozzi diretti da Luciano Salce, anche se in quel caso era declinata in chiave impiegatizia, fra megadirettori e “cari inferiori”.

Comunque, il problema non consiste nel se e nel come si riesca a fare satira intorno ad un sistema politico ormai del tutto simile a quegli squali che, feriti durante la cattura, in piena frenesia alimentare, arrivano ad addentare i loro stessi visceri, a quanto narrano antiche leggende marinare, ma nel constatare la triste circostanza di come nel nostro paese si sia già ben più avanti, in svariate circostanze, a sostenere la caricatura di un sistema democratico, fra i mai passati di moda panem et circenses , vizi privati e pubbliche virtù, senza dimenticare le foglie di fico volte a nascondere le vergogne costituite da vari conflitti d’interesse. La semplice rappresentazione dello status quo, senza delineare un minimo d’ideologia in contrasto, anche a livello d’utopica speranza, non è “semplicemente neorealismo”, come si è detto in corso di qualche presentazione, ma la solita pacca sulla spalla auto assolutoria, propria di tante, troppe, commedie nostrane che si sono succedute sugli schermi in questi ultimi trent’anni, tranne, ovvio, poche e felici eccezioni.

Riguardo Colpi di fulmine, la Filmauro prosegue nell’opera di pulizia avviata lo scorso anno (Vacanze di Natale a Cortina), ormai decisa ad archiviare la solita farsa infarcita di gratuite volgarità e gag sempre più triviali, nascondendosi dietro la pseudo analisi di costume, innestata su una location esotica con fritto misto d’italiani in vacanza natalizia, tra cialtroni e brava gente d’ordinanza, “arricchita” dalla solita spolverata di “vip prezzemolo”. Affidando, in linea di continuità, la regia al fido Neri Parenti, anche tra gli autori dello script (insieme a Domenico Saverni, Alessandro Bencivenni e Volfango De Biase), il consueto canovaccio appena più studiato e levigato, si è così delineata una commedia, strutturata in due episodi separati l’uno dall’altro, incentrata sulla forza improvvisa dei sentimenti, il classico coup de foudre come da titolo, che può sconvolgere e cambiare da un momento all’altro la vita delle persone.

L’ispirazione arriva, oltre che dalle pellicole romantiche d’oltreoceano, dal vasto repertorio della nostra commedia anni ‘50, non ancora “all’italiana”, ma rientrante in quella corrente definita, inizialmente con toni dispregiativi, “neorealismo rosa”, imperniata più sul privato delle persone che sul sociale, affrancandosi dall’impegno civile e politico del neorealismo propriamente detto, filtrato da toni umoristici man mano preponderanti, evidenziati da scaramucce sentimentali o sapidi battibecchi. Per quanto si possa gradire lo sforzo e, forse, le buone intenzioni, il risultato non è del tutto convincente: è inutile ricalcare modelli e situazioni d’antan senza conferire un minimo di caratterizzazione, d’impronta personale, che non sia il ricorso a gag scontate e sguaiate, sfruttando una comicità di situazione sin troppo one man show (il primo episodio con De Sica) o accordata, a livello cinematografico, superficialmente (il secondo, protagonisti Lillo e Greg), risentendo di una impostazione legata al piccolo schermo, da buona fiction televisiva, senza dimenticare, in entrambi i casi, gratuite e ruffiane escursioni in numeri da musicarello a completare il pastiche.

De Sica interpreta Alberto Benni, psichiatra in fuga, su consiglio del suo avvocato, da un accertamento della Guardia di Finanza (è innocente, ma teme di finire in galera prima di poterlo dimostrare), con indosso una tonaca da prete sottratta ad un paziente: giunto in un paesello del Trentino si sostituirà, dopo una serie di fortuiti accadimenti, al “collega” don Dino nella gestione della locale parrocchia, coadiuvato dalla perpetua Tina (Arisa) e dal sagrestano Oscar (Simone Barbato). Forte di un metodo “alternativo”, tra confessioni-seduta psichiatrica e liturgie canterine, il nostro sarà benvoluto da tutti, ma la sua vita cambierà quando incontrerà Angela (Luisa Ranieri, tutta occhi scintillanti e super sorriso), maresciallo dei Carabinieri, promessa sposa del sindaco. Ripreso il vecchio don Buro di Vacanze in America (’84, Carlo Vanzina), ripulito dall’intercalare e dai vezzi ciociari, anche se l’età dell’attore costringe ad un confronto con l’eguale travestimento del padre ne I due marescialli (’61, Bruno Corbucci), De Sica fatica non poco a gestire i tempi comici in totale solitudine (sugli apporti cinematografici di Arisa con parlata lucana e di Barbato mimo meglio soprassedere), cercando di contenere intemperanze gestuali e verbali.

Gli va comunque riconosciuta una generosità ai limiti del martirio, visto che anche regia e sceneggiatura lo abbandonano presto, per riprendere il loro ruolo nell’episodio successivo, Pygmalion “de’ noantri” dai ruoli rovesciati, con Greg nella parte di Ermete Maria Grilli, azzimato ambasciatore della Santa Sede (mutuato dalla figura dell’Alberto Sordi- Agostino de Il moralista, Giorgio Bianchi, ’59), il quale ricorre all’aiuto di Nando (Lillo), il suo autista, per “ripulirsi” dai modi affettati e conquistare il cuore della bella figliola di cui è innamorato, la pescivendola Adele Ventresca (Anna Foglietta), coatta doc, ispirata nelle movenze e nei tratti essenziali un po’ a Giovanna Ralli, un po’ alla Loren. Anche qui contorno di battute grevi, una comicità, non nuova, basata sul contrasto tra idioma italiano colto e romanesco de’ borgata, qualche accenno di satira alla gerarchia ecclesiastica (e più d’ uno sberleffo ad Habemus Papam, 2011, Nanni Moretti), anche se è doveroso riconoscere una cura maggiore rispetto alla prima storiella.

L’impressione finale è quella di un’operazione in stile “furbetti del quartierino”, nella consapevolezza d’ ottenere buoni incassi col minimo sforzo, in attesa di tempi migliori: se, come si suole dire, ogni primo passo è l’inizio di un nuovo cammino, Colpi di fulmine ha allora messo in atto una “rottamazione dolce”, in attesa, ci si augura, di poter ridare dignità e dimensione cinematografica ad a una commedia “sanamente popolare”, rispettosa in egual misura della voglia di divertimento del pubblico e della sua intelligenza.

Antonio Falcone

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