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7/10

Quando c'era Berlinguer regia di Walter Veltroni

Documentario
recensione di Alessandro Pascale

La vita e l'avventura politica di Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista Italiano (PCI) dal 1972 al 1984.

Non è facile parlare di un film su Enrico Berlinguer. Tanto meno quando chi lo dirige è uno come Walter Veltroni. Il tessuto emozional-sentimentale ed il bagaglio ideologico-politico tendono inevitabilmente a fondersi e scontrarsi in un intreccio che rischia di mettere in totale secondo piano l'aspetto puramente cinematografico. D'altronde occorre prendere atto che Quando c'era Berlinguer non è semplicemente un film prodotto in quanto tentativo artistico, ma è evidentemente un film “politico”, sia in senso ampio, con un intento cioè di tipo pedagogico-educativo (di qui l'inizio dell'opera in cui si intervistano le giovani generazioni ignoranti), sia in senso ristretto, con un utilizzo sconsiderato e neanche troppo mascherato della sua figura per giustificare alcuni progetti politici affermatisi negli ultimi anni in Italia.

Prima di addentrarci nella polemica politica, tanto necessaria visto lo scopo del film, è giusto però sottolineare i pregi tecnici del documentario realizzato da Veltroni, capace di dosare adeguatamente filmati d'epoca, interviste, inquadrature originali e spezzoni d'amarcord che mostrano una certa cultura cinefila e capacità citazionista del regista. A dirla tutta si potrebbero avere molte cose da ridire riguardo alle interviste, in particolar modo sulla scelta dei molti soggetti poco raccomandabili a cui si è chiesto di testimoniare e ricordare. Anche questa critica deve però rientrare piuttosto nella polemica politica. Nel frattempo si può e si deve elogiare alcune azzeccatissime scelte registiche capaci di toccare nel profondo lo spettatore: ad esempio la volontà di mostrare un'ampia parte del discorso tenuto a Padova dal segretario del PCI. L'ultimo prima di morire. Portato avanti con tenacia, passione, lotta, nonostante l'evidenza per tutti, compresa la folla lì presente, che il leader stesse dando inquietanti segnali di cedimento. In quelle immagini si raggiunge il vertice nella capacità di rappresentare la profonda umanità e profondità etica, politica e kantiana che caratterizza questa grande figura. È vero che in generale la vita di Berlinguer, la sua coerenza personale, il suo carattere integerrimo e austero, seppur unito ad una personalità interiormente sorridente e allegra, rendono agevole il compito di far appassionare chiunque a questo piccolo uomo sardo che credeva nella Politica con la “p” maiuscola.

Veltroni riesce però a sfruttare ogni piccolo dettaglio riuscendo a far emergere tutta la maestosità di questa ineccepibile levatura morale, il che è senz'altro il pregio migliore dell'opera, nel suo scopo politico “ampio”. Nell'Italia odierna, martoriata da qualunquismo, disonestà, ignoranza dilagante e dilettantismo approssimativo a nessuno guardando il film verrebbe in mente di accusare un uomo come Berlinguer di essere un membro della casta politica che non ha mai lavorato in tutta la vita. Risuonano invece attualissime le sue parole scritte dal carcere di Sassari (“L'antipolitica è la nuova forma di fascismo”) dove durante la guerra un giovanissimo Enrico era stato incarcerato per la sua attività partigiana ed antifascista. Ugualmente emozionanti altri momenti topici: l'intervista all'operaio singhiozzante che lo vide poco prima di morire, i racconti della guardia del corpo, le ormai classiche immagini del maestoso funerale...

L'unico vero problema dell'opera dal punto di vista meramente tecnico-cinematografico, è forse la sua mancanza di vivacità e dinamicità. Un aspetto d'altronde che si collega alla volontà narrativa di costruire uno sfondo epico su cui innestare la storia drammatica di un personaggio che sfiorò il cielo con un dito prima di declinare lentamente, sul doppio e parallelo binario fisico e politico. Ci addentriamo nell'analisi politica, la quale, come è evidente, si collega all'aspetto narrativo-cinematografico: la parte finale dell'opera infatti, coincidente con gli ultimi anni di vita del protagonista, trasforma il racconto politico in un canto del cigno in cui il dettaglio sfuma: si iniziano ad omettere aspetti e particolari importanti (la battaglia contro l'installazione dei missili della NATO, la polemica contro i “miglioristi” che volevano trasformare il PCI in un'organizzazione socialdemocratica, la lotta impetuosa sulla scala mobile, la ripresa della denuncia delle ruberie democristiane). Il Berlinguer degli ultimi anni (1980-84) non è più per Veltroni un personaggio politico, se non quando porta avanti i temi a lui cari (come la polemica con l'URSS e il socialismo reale, portata a termine nel discorso del 1981 “sull'esaurimento della spinta propulsiva”): diventa bensì un eroe shakspeariano, una figura tragica e romantica che riesce col suo solo carisma nel miracolo di tenere in piedi un'ideologia ed un'organizzazione ormai anacronistici ed inadatti alla “modernità” galoppante.

Questo è il messaggio che fa passare Veltroni, arrivando a far dire esplicitamente agli stessi miglioristi (cioè ai più acerrimi nemici interni al partito dell'ultimo Berlinguer: Napolitano, Macaluso) e a personaggi discutibili per molti aspetti (Jovanotti...!, la figlia Bianca, ecc.) che il PCI non poteva sopravvivere a Berlinguer, e che anzi gli eventi successivi erano inevitabili. Questa manovra, tesa di fatto a legittimare e giustificare l'esito politico tuttora in (de-)evoluzione intrapreso dai post-comunisti, cercando allo stesso tempo di mantenere nella propria storia un personaggio sempre e comunque orgogliosamente comunista (per quanto con le proprie peculiarità e, mi si consenta di dirlo, peccando spesso di ingenuità e di errata analisi tattico-strategica), è l'aspetto più imbarazzante, revisionista, squallido e degradante dell'opera di Veltroni: usare la tragica figura di Berlinguer per convincere il pubblico italiano medio-progressista che la questione comunista sia ormai irrimediabilmente chiusa da 30 anni senza possibilità di alcun ripensamento. Le uniche cose possibili che rimangono per lo spettatore sono il rimpianto, il ricordo e la nostalgia per un'epoca ed un uomo ormai rinchiusi in un passato che è Storia, e come tale va catalogato, senza appello possibile per una riedizione nel presente. Ecco il succo del messaggio politico “ristretto” dell'opera di Veltroni. Un messaggio che lo spettatore deve sforzarsi di separare dall'intreccio con il sentimento agiografico per Berlinguer, cogliendolo per quello che è: soltanto un'opinione di un politico mediocre.

Occorrerebbe infine, a 30 anni dalla morte, cominciare a ridiscutere criticamente su molte delle scelte più che discutibili (tattiche o strategiche che fossero) portate avanti dal PCI di Berlinguer, spesso introdotte e portate avanti su suo primario personale convincimento ed in maniera testarda. Veltroni chiaramente le presenta come strategiche, essendo interessato a distaccare il più possibile l'icona leggendaria dall'impero “del male” sovietico. La realtà è probabilmente molto più complessa, ma il discorso inizierebbe a deviare troppo dal mero ambito cinematografico per penetrare nell'essenza puramente politica e non è chiaramente questo il luogo più adatto per una simile discussione. Si concluda affermando soltanto questa certezza: se Berlinguer fosse ancora vivo sarebbe sicuramente stato più contento se un “talento” come Veltroni si fosse limitato alla carriera cinematografica rispetto a quella politica.

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