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4/10

Swing Vote regia di Joshua Michael Stern

Commedia
recensione di Alessandro Pascale

Bud Johnson, padre single ed eterno perdente, si trova di colpo sotto i riflettori dell'intera nazione: una serie di eventi fanno sì che il suo solo voto diventi determinante per l'elezione del nuovo Presidente degli Stati Uniti...

Peccato. Peccato perché Swing Vote è un film che potenzialmente poteva dare davvero tanto, se fosse stato in grado di portare alle estreme conseguenze l’intrigante idea di fondo che vi era alla base. Il presupposto che per un particolare scherzo del destino l’elezione del futuro presidente degli Stati Uniti dipenda dal voto di un “indipendente” convinto che votare sia inutile è senz’altro intrigante, perché mette in rilievo il carattere illusorio cui può giungere il sistema democratico liberal-borghese in cui viviamo. Un sistema riflesso delle strutture economiche, e come tale un modello che quando si arriva alle elezioni offre dei prodotti, tendenzialmente alternativi, ma non troppo, appena sfumati, pronti a venirsi incontro in un grande abbraccio corale stile “volemose tutti bene”.

La democrazia americana poi, non ne parliamo, con il suo bipartitismo perfetto e moderatissimo. Perfino il candidato democratico più radicale (nero, giovane, intrigante) non metterà mai in discussione le fondamenta di un sistema economico malato e ingiusto. Tertium non datur, e i media fanno il resto. Ma sto divagando sull’attualità, mentre a noi interessa il registro cine-fantasioso dell’opera: Bud Johnson (Kevin Costner) deve scegliere se votare il repubblicano o il democratico. Gli sono entrambi indifferenti, ma lui ovviamente non è indifferente a loro, che cominciano a coccolarlo e corromperlo con ogni mezzo possibile, dalla festicciuola semi-paesana allo stravolgimento del proprio programma elettorale.

Proprio questa è la fase più interessante del film: il modo in cui viene esposto chiaramente quanto per i candidati presidenti i contenuti politici, gli ideali, i valori per cui lottano non siano in realtà più importanti del potere. Arrivare alla Casa Bianca da vincitori è un fine per cui si può utilizzare ogni mezzo, anche il più squallido. Così ecco che ridiamo quando un repubblicano annuncia la libertà di matrimonio per i gay mentre un democratico si batte contro l’aborto. È il mercato che lo impone, e il consumatore ha sempre ragione, quindi la politica mercificata (mancando partiti di spessore morale) si adegua. Quello che è davvero deprecabile del film è che dapprima fa emergere i limiti enormi della democrazia borghese americana, ma poi riesce a redimere quest’ultima, riscattandola moralmente nel suo complesso, diventando quindi un manifesto del qualunquismo-purchè-democratico, in cui diventa indifferente chi voti tra destra e sinistra, l’importante è che voti. Un manifesto contro l’apoliticità e il disimpegno, che vorrebbe restaurare un po’ di impegno civico che gli Americani hanno ormai perso dalla notte dei tempi.

Al di là della deprecabile strada intrapresa da un film assai fastidioso nella sua reazionaria ideologia, l’opera di Joshua Michael Stern è dal punto di vista cinematografico quanto di più piatto e banale ci si potesse aspettare. Non una camera a mano, non un piano sequenza intrigante, non un montaggio violento. Tutto classico fino alla nausea, tra inquadrature da scuola del cinema per esordienti televisivi e trionfo completo di uno scialbo campo-controcampo. Kevin Costner nel ruolo di burino americano medio fa la sua porca figura. D’altronde coi film che continua a propinarci è probabile che finirà anche lui nella condizione del personaggio presente nel film: molesto ubriacone incapace di mantenere corrette relazioni familiari. Auguri.

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