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R Recensione

4/10

Camelot regia di Joshua Logan

Musicale
recensione di Leonardo Romano

Re Arthur sposa la bella Ginevra e decide che l'Inghilterra unifichi i tanti piccoli feudi in un unico grande regno governato dal diritto e non  dal sopruso: per questo fonda i Cavalieri della Tavola Rotonda.  Chiamato dalla fama di tale impresa, arriva dalla Francia il bel Lancelot, che si innamora (ricambiato) della Regina Ginevra. Arthur, scoperto il tradimento, deve punire i due adulteri, pur contravvenendo ai suoi quanto mai civili principi.

Questi film potrebbe in qualche modo incarnare il vecchio adagio “l'assassino torna sempre sul luogo del delitto”. Joshua Logan, stimato regista teatrale a Broadway, nel 1958, fu incaricato di portare sullo schermo uno strepitoso successo di Rodgers e Hmmerstein, South Pacific. Il risultato? Uno sciaguratissimo tonfo spaventoso, sia artistico che commerciale. Qualche anno dopo, nel 1969, mise mano a La ballata della città senza nome ovverosia a Paint your wagon di Lerner e Loewe, con un improbabile Clint Eastwood canterino e col risultato di far saltare le teste di alcuni alti dirigenti della Paramount e di distruggere definitivamente la sua carriera hollywoodiana.

Ma sarà bene chiarire prima il contesto in cui fu girato Camelot. Dopo Tutti insieme appassionatamente, strepitoso successo internazionale uscito nelle sale nell'anno di grazia 1965, il musical cinematografico (e anche quello teatrale, forse) aveva il fiato grosso. Si era escogitato tutto il possibile e l'immaginabile (americani a Parigi, cantanti sotto la pioggia, vari Fred e Ginger più o meno di imitazione, bambinaie e suore canterine, fioraie che diventano lady etc. etc.), ritrovandosi così in profonda crisi di ispirazione. Non sapevano più che inventarsi, insomma!...

Broadway, però, rimaneva sempre una buona miniera da fagocitare. E Camelot, grandissimo successo di Broadway di Lerner e Loewe (gli autori di un'altra gallina dalle uova d'oro come My Fair Lady), poteva fregiarsi di un cast sbalorditivo: Julie Andrews (che poi sarebbe planata a Burbank per incarnare una tale Mary Poppins per Disney), lo shakespeariano e ineguagliabile Richard Burton (prima della sua “relazione pericolosa” con Liz Taylor) e Robert Goulet (da noi poco conosciuto, ma bravissimo cantante dal vocione stentoreo).

Nel passare sul grande schermo, nello splendore dei 70 mm marchiati Warner, i nodi vennero al pettine. La Andrews, forse memore di “colui che fece per viltade il gran rifiuto” (Jack Warner, che le preferì Audrey Hepburn per interpretare Elisa in My Fair Lady, nel 1964), si defilò dall'impresa chiedendo un compenso stratosferico (ben 7 milioni di dollari) e rendendo per la vecchia cariatide dei produttori hollywoodiani irricevibile la proposta. Il resto del cast, per un motivo o per l'altro, non fece parte dell'impresa (ad esempio, Burton era impegnato su altri set e dalla sua burrascosa relazione dall'alto tasso alcolemico con la Taylor). Quindi produttore e regista, dovettero prendere atto delle incolmabili assenze ed agirono di conseguenza. Logan prese la situazione in mano e fece un patatrac (ma Warner non fu da meno autorizzando la troupe a vagolare per l'Europa – Inghilterra e Spagna, ad esempio – per girare alcuni esterni. Ma ce n'era proprio bisogno?).

Non convinto dalle doti drammatiche della Andrews, visto che il copione fu scritto accentuando il tono drammatico della vicenda, il regista fece scritturare Vanessa Redgrave, grande signora del teatro inglese, ammirata anche da Tennessee Williams (affermava che fosse la sua attrice preferita. La seconda era nientepopodimenochè Anna Magnani): quindi sul suo talento non si potevano nutrire dubbi. Artù, diventato “Arthur” anche nella versione italiana (cosa che ai nostri orecchi suona non poco strano), ebbe il volto di Richard Harris (che era stato anche protagonista di un film tutt'altro che marginale come Deserto rosso). Lancelot, e non Lancillotto (vale stesso discorso fatto per Artù poco sopra), ha i lineamenti perfetti e gli occhi cerulei di un bellissimo Franco Nero (un po' prima che diventasse il poliziotto fascistoide dalla pallottola facile per antonomasia dei poliziotteschi del decennio successivo).

Con tanta e tale rispettabile carne al fuoco, quali sono stati i risultati? Eh...Mi sa che non posso proprio sperticarmi in elogi, in questo caso. Tutti e tre i protagonisti non sapevano articolare una nota nemmeno a pagarla oro. Vanessa Redgrave e Richard Harris misero in modo le proprio ugole (per niente d'oro), mentre Franco Nero fu doppiato da Gene Merlino (sembra quasi una battuta visto che il film si intitola Camelot, ma il doppiatore si chiamava davvero così). La Redgrave miagola in modo insopportabile, in modo rauco e nasale come se avesse fatto i gargarismi con l'acqua ragia, lasciando ovviamente nel cassetto tutti i virtuosismi e le note impossibili che Julie Andrews raggiungeva con impressionante facilità (per fortuna, l'incisione del cast di Broadway è conservata a futura memoria e non può non farci rimpiangere l'appuntamento cinematografico mancato). In più, non comunica né ironia, né divertimento, né brillantezza, né travaglio per l'illecita relazione di Ginevra con Lancillotto: non comunica niente (se non addirittura antipatia). Forse la sua peggiore interpretazione in assoluto.

Richard Harris si disimpegna in modo meno disastroso della Redgrave (e forse anche meglio di Burton, nel canto), ma non gronda certo personalità: sembra una sorta di impiegato catapultato a svolgere indesiderate mansioni regali (diligente nell'interpretare il suo ruolo, ma privo di vivacità e di nerbo). Franco Nero (salvato nel canto da un professionista. E vien da chiedersi: se non hanno doppiato gli altri che erano atroci e invece hanno doppiato solo lui, ma che razza di cane doveva essere?) è una sorta di pesce lesso monocorde (e, nel prosieguo della sua carriera, non avrebbe fatto certo passi in avanti).

In più il film si trascina stancamente fino alla fine: senza nerbo, senza invenzioni registiche e la cifra spesa dal veterano Jack Warner (uno sproposito! 13 milioni di dollari) non si nota minimamente, così poco valorizzata com'è da una fotografia non particolarmente memorabile e da costumi non certo sbalorditivi. Sul versante musicale, perfino Alfred Newman (storico direttore della Fox) ci mette lo zampino con orchestrazioni alquanto scipite che nulla hanno del grandeur del musical classico, categoria a cui Camelot andrebbe ascritto a tutti gli effetti. Forse il vegliardo orchstratore, preso atto dell'inettitudine dei suoi interpreti, ha dovuto assottigliare le sonorità per non coprire troppo i “cantanti” (le virgolette sono d'obbligo). Senza contare l'inevitabile semplificazione d quella che era una delle più ammirate partiture di Broadway!

Camelot vien più ricordato dagli appassionati di gossip per il divampare della passione fra Vanessa Redgrave e Franco Nero che dai cinefili o dai semplici amanti del musical. Non ci si stupirà nel rivelare che il film fu un disastro commerciale (e i critici non esitarono a fare il tiro al piccione) e i magri profitti ebbero come risultato l'emarginazione di Warner dalla sua casa di produzione. Però perfino questo film non proprio esaltante un pregio ce l'ha: il doppiaggio musicale (non certo quello parlato, con la “perla nera” di Gabriella Genta su Vanessa Redgrave. La Genta conoscerà però maggior fortuna e ci rimarrà maggiormente impressa come la pimpante signora Cunningham di Happy days).

Benchè i distributori avessero avuto l'accortezza di scorciare non poco le canzoni (a volte anche in modo brutale, però l'intenzione era forse di salvare gli spettatori dalla noia e di attutire la caduta libera degli incassi. Senza riuscirvi, tra l'altro: gli italiani avevano sempre dimostrato una certa allergia per i musical) e l'adattamento dei testi fosse di una mediocrità unica (i testi di Alan Jay Lerner vengono estremamente banalizzati con una traduzione alquanto tirata via), Tina Centi presta la sua bella voce a Ginevra (chiamata nel film “Ginny”, come se fosse una protagonista di un film di Moccia) e ci rende perfino gradevole la prestazione della Redgrave. Gigi Proietti è un valente Arthur e Gianni Marzocchi presta il suo velluto a Lancelot.

Per il resto, niente da segnalare. Circa tre ore di sbadigli più o meno a bocca aperta. Camelot, al suo debutto a Broadway, si ritrovò involontariamente ad essere quasi un epinicio (per tramutarsi poi in un epicedio) dell'epopea kennediana (fu notato che Robert Goulet aveva una parrucca che lo faceva sembrare tremendamente simile a John Fitzgerald Kennedy). Pare che John Kennedy, ogni sera prima di andare a letto, ascoltasse la canzone Camelot come se ne trovasse un'ispirazione per agire in modo tale che i posteri lo ricordassero come un illuminato sovrano al pari di Artù. Vedere che tale fascino, in questo sonnolento adattamento, si dissolva come per magia (o, meglio, per un maleficio della Fata Morgana), non può che non lasciare tanto tanto amaro in bocca. Comunque, col passare dei decenni, perfino questo Camelot ha trovato i suoi estimatori negli Stati Uniti, sempre nell'ottica (molto in voga da 15 anni a questa parte) del recupero dell'irrecuperabile. Vedere questo film è una discreta quanto oziosa perdita di tempo, ma se vi avanzano tre orette da sprecare...

 

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