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R Recensione

9/10

The Act of Killing regia di Joshua Oppenheimer

Documentario
recensione di Victor Musetti

Sumatra, Indonesia. Tra il 1965 e il 1966, quando un tentato golpe andato male segnò l'inizio della fine per il presidente riformatore Sukarno, si scatenò un'ondata di violenza contro i presunti comunisti. Uomini, donne e bambini furono massacrati indiscriminatamente per una cifra che si stima oltre il milione di vittime. Oggi, i membri della Pancasila Youth e responsabili dele stragi, vivono ancora a cielo aperto e impuniti.

A volte guardare un film può essere un'esperienza tutt'altro che piacevole. E' una reticenza istintiva che non deriva da una scarsa qualità dell'opera, bensì dalla nostra mancanza di coraggio per affrontare e accettare ciò che ci viene mostrato sullo schermo. E come succedeva spesso con Michael Haneke (sfido chiunque a dirmi di non aver pensato di interrompere la visione di fronte alla scena madre di Benny's Video), succede oggi con l'incredibile e sconvolgente capolavoro di Joshua Oppenheimer The Act of Killing. Ma si tratta di una reticenza molto diversa. The Act of Killing è un documentario in cui alcuni paramilitari indonesiani della Pancasilla, colpevoli di avere ucciso dopo il colpo di stato del 1965 almeno un milione di presunti/accusati comunisti tra uomini, donne e bambini, vengono esortati a rimettere in scena per un film le uccisioni dell'epoca con una vera troupe cinematografica, con tanto di costumi e numerose comparse. Questi "gangster" (loro dicono che la parola significhi "free man" e si fanno chiamare così) sono tutti vivi e vegeti, alcuni di loro ancora in posizioni di potere, altri in pensione e tutti pieni di soldi fino al midollo. L'impatto per uno spettatore medio occidentale è prima di tutto culturale. Quello che infatti ci viene mostrato sin dall'inizio con naturalezza e spontaneità non smette mai per un attimo di essere insostenibile e scioccante. Perchè sebbene temi come la corruzione e l'omicidio appartengano alla nostra cultura allo stesso modo di tutte le altre è senz'altro sconvolgente il vedere con i propri occhi un mondo di malavita e ingiustizie sociali che, al contrario di ciò che succede da noi, non si nasconde sottoterra per far trasudare e marcire il terreno sovrastante, ma al contrario vive a pieni polmoni e a cielo aperto, facendo delle minacce e delle violenze quotidiane un metodo di controllo e di giurisdizione. Si rimane come paralizzati dal profondo paradosso che sta alla base di una realtà che non accettiamo per i nostri principi morali. Gli intervistati ridono, sono ricchi, felici, conducono una vita normale e vantano un carisma notevole. E ne siamo quasi affascinati quando ci sfugge di mente che hanno ucciso quasi un milione di persone. Ma rimane uno scontro culturale. Perchè appena vi è la possibilità di destabilizzare questo mondo di normalizzazione del crimine e dell'assurdo ecco che succede qualcosa che non solo è cinematograficamente straordinario, ma è soprattutto concettualmente rivoluzionario. Con la scusa di un film che metta in scena lo sterminio dei comunisti avvenuto tra il '65 e il '68 si è riusciti a coinvolgere nella ricostruzione dei metodi e delle tecniche utilizzate durante gli interrogatori e le uccisioni gli stessi carnefici, ormai vecchi, che si macchiarono di quei crimini. E Oppenheimer, in un modo o nell'altro, di fronte a uomini ormai salvi da ogni responsabilità e da qualsiasi sentimento che non sia la pietà o l'affetto che si prova per le persone anziane e, quindi, inerti, è riuscito nell'intento di far rendere loro conto, probabilmente per la prima volta nella loro vita, di quello che avevano fatto. E il valore sociale di un'operazione di cinema di questo livello è enorme. Non solo perchè evidenzia con orgoglio la vera potenza risolutrice (e distruttrice) del cinema negli equilibri del mondo, ma soprattutto perchè respira, ricerca e vive come un animale affamato di verità, di giustizia e di parità, senza però mai mettere in discussione il rispetto della dignità umana, anche di fronte agli assassini. Tra i produttori figurano pure i nomi di Werner Herzog e Erroll Morriss, due dei più grandi documentaristi viventi. Ma forse nemmeno Herzog avrebbe mai osato tanto.

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Upuaut 10/10

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alexmn alle 0:50 del 17 settembre 2013 ha scritto:

non voglio spoilerare nulla, quindi sarò vago. ad un certo punto poco prima della fine oppenheimer, con un climax improvviso e devastante, spiazza lo spettatore (me) e il 'free man' anwar congo con una frase potentissima e coraggiosa, un momento di cinema altissimo difficile da descrivere a parole. il film avrebbe dovuto chiudersi lì. gli ultimi 6/7 minuti finali invece mi hanno disturbato al punto da quasi mettere in discussione tutto il messaggio che il regista ha saputo costruire con maestria per 150 minuti.

misterlonely, autore, alle 21:57 del 17 settembre 2013 ha scritto:

penso che più che analizzare la struttura del film in sé sia meglio guardarlo in modo un po' più ampio, e cioè pensare a tutto ciò che sta dietro. E' vero, la risposta di Oppenheimer è qualcosa di potentissimo e inspiegabile, ma il fatto che sia un momento di cinema è soltanto il risultato, in realtà prima di ogni altra cosa è un momento di vita, di umanità, di giustizia sociale. Il fatto che poi si sia riusciti a documentarlo, metterlo insieme e farci un film è un miracolo, un risultato che va oltre ogni aspettativa razionale. ma un dettaglio non puo' offuscarne un altro. The Act of Killing è un capolavoro in quanto film solo e soltanto perché un'operazione straordinaria è stata fatta nella realtà.

alexmn alle 11:22 del 18 settembre 2013 ha scritto:

l'analisi della struttura mi era funzionale per dare dei riferimenti. è chiarlo che dietro il momento di cinema c'è la realtà (con tutte le difficoltà produttive e umane che non conosco ma posso in parte immaginare), però trattandosi di un'opera audiovisiva l'ho definito così. il punto è che per me quella parte finale non è soltanto un dettaglio, ma una scelta registica molto precisa che ha inevitabilmente delle ripercussioni sul messaggio veicolato. il quadro perfetto che ha delineato per tutto il film - nonchè il sotteso e discreto giudizio che vuole far passare - nella mia testa ha subito uno scossone con l'ultima sequenza perchè non stiamo parlando di pochi secondi, ma di un tempo che filmicamente ha un suo peso assertivo.

the act of killing nasce si da un'operazione straordinaria fatta nella realtà, però quello che lo spettatore può fare è 'giudicare' sulla base di scelte che sono necessariamente cinematografiche. come scrivevo nel commento, il film per me è stupendo, solo che non riesco a non pensare alle scelte fatte sul finale.