The Act of Killing regia di Joshua Oppenheimer
DocumentarioSumatra, Indonesia. Tra il 1965 e il 1966, quando un tentato golpe andato male segnò l'inizio della fine per il presidente riformatore Sukarno, si scatenò un'ondata di violenza contro i presunti comunisti. Uomini, donne e bambini furono massacrati indiscriminatamente per una cifra che si stima oltre il milione di vittime. Oggi, i membri della Pancasila Youth e responsabili dele stragi, vivono ancora a cielo aperto e impuniti.
A volte guardare un film può essere un'esperienza tutt'altro che piacevole. E' una reticenza istintiva che non deriva da una scarsa qualità dell'opera, bensì dalla nostra mancanza di coraggio per affrontare e accettare ciò che ci viene mostrato sullo schermo. E come succedeva spesso con Michael Haneke (sfido chiunque a dirmi di non aver pensato di interrompere la visione di fronte alla scena madre di Benny's Video), succede oggi con l'incredibile e sconvolgente capolavoro di Joshua Oppenheimer The Act of Killing. Ma si tratta di una reticenza molto diversa. The Act of Killing è un documentario in cui alcuni paramilitari indonesiani della Pancasilla, colpevoli di avere ucciso dopo il colpo di stato del 1965 almeno un milione di presunti/accusati comunisti tra uomini, donne e bambini, vengono esortati a rimettere in scena per un film le uccisioni dell'epoca con una vera troupe cinematografica, con tanto di costumi e numerose comparse. Questi "gangster" (loro dicono che la parola significhi "free man" e si fanno chiamare così) sono tutti vivi e vegeti, alcuni di loro ancora in posizioni di potere, altri in pensione e tutti pieni di soldi fino al midollo. L'impatto per uno spettatore medio occidentale è prima di tutto culturale. Quello che infatti ci viene mostrato sin dall'inizio con naturalezza e spontaneità non smette mai per un attimo di essere insostenibile e scioccante. Perchè sebbene temi come la corruzione e l'omicidio appartengano alla nostra cultura allo stesso modo di tutte le altre è senz'altro sconvolgente il vedere con i propri occhi un mondo di malavita e ingiustizie sociali che, al contrario di ciò che succede da noi, non si nasconde sottoterra per far trasudare e marcire il terreno sovrastante, ma al contrario vive a pieni polmoni e a cielo aperto, facendo delle minacce e delle violenze quotidiane un metodo di controllo e di giurisdizione. Si rimane come paralizzati dal profondo paradosso che sta alla base di una realtà che non accettiamo per i nostri principi morali. Gli intervistati ridono, sono ricchi, felici, conducono una vita normale e vantano un carisma notevole. E ne siamo quasi affascinati quando ci sfugge di mente che hanno ucciso quasi un milione di persone. Ma rimane uno scontro culturale. Perchè appena vi è la possibilità di destabilizzare questo mondo di normalizzazione del crimine e dell'assurdo ecco che succede qualcosa che non solo è cinematograficamente straordinario, ma è soprattutto concettualmente rivoluzionario. Con la scusa di un film che metta in scena lo sterminio dei comunisti avvenuto tra il '65 e il '68 si è riusciti a coinvolgere nella ricostruzione dei metodi e delle tecniche utilizzate durante gli interrogatori e le uccisioni gli stessi carnefici, ormai vecchi, che si macchiarono di quei crimini. E Oppenheimer, in un modo o nell'altro, di fronte a uomini ormai salvi da ogni responsabilità e da qualsiasi sentimento che non sia la pietà o l'affetto che si prova per le persone anziane e, quindi, inerti, è riuscito nell'intento di far rendere loro conto, probabilmente per la prima volta nella loro vita, di quello che avevano fatto. E il valore sociale di un'operazione di cinema di questo livello è enorme. Non solo perchè evidenzia con orgoglio la vera potenza risolutrice (e distruttrice) del cinema negli equilibri del mondo, ma soprattutto perchè respira, ricerca e vive come un animale affamato di verità, di giustizia e di parità, senza però mai mettere in discussione il rispetto della dignità umana, anche di fronte agli assassini. Tra i produttori figurano pure i nomi di Werner Herzog e Erroll Morriss, due dei più grandi documentaristi viventi. Ma forse nemmeno Herzog avrebbe mai osato tanto.
Tweet