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5/10

Sul Lago Tahoe regia di Fernando Eimbcke

Road Movie
recensione di Alessandro Pascale

Un assolato giorno d’estate, Juan fa un incidente in macchina e si mette alla ricerca di un pezzo di ricambio per poter far funzionare la vettura. Nel suo percorso conosce alcune persone con cui instaura dei rapporti: uno scorbutico vecchietto ed il suo cane Sica, una giovane ragazza madre, super tabagista, e un ragazzo appassionato di arti marziali. Il ragazzo tornerà anche a casa, e solo qui si capirà qualcosa in più di lui e della sua storia…

Cominciamo da un dato nudo e crudo: Sul Lago Tahoe è un prototipo perfetto di film indipendente internazionale. Uno di quelli che come che siano fatti fanno notizia, facendo rumore ad uno qualsiasi delle decine di festival degni di nota in giro per il mondo.

Detto questo si può dirlo: Sul Lago Tahoe è un esercizio decisamente presuntuoso e mal riuscito. Spiace dirlo perché l’idea di fondo non è male, né tantomeno lo è la caratterizzazione dei personaggi, spesso asfittici ma drammaticamente reali, chiusi nel loro piccolo mondo interiore, incapaci di rapportarsi adeguatamente con l’esterno e l’ambiente. Anche la fotografia e la sceneggiatura meritano un pollice alzato, la prima per la capacità di trarre da pochi fugaci sfondi un’espressività notevole; la seconda per lo stesso motivo: riuscire a cogliere l’essenza di una storia “vera” in cui a contare sono eventi piccoli, insignificanti, secondari, da strada.

Da strada per l’appunto, e qui entra in gioco un aspetto fondamentale del film, di fatto un percorso on the road di formazione per il sedicenne Juan, sconvolto dalla morte del padre e chiusosi in una rassegnazione interiore devastante. Devastante a tal punto da fargli compiere un incidente stradale che diventerà il principio primo cardine di una serie notevole d piccoli eventi che capiteranno a Juan.

Eventi che all’inizio egli subisce passivamente con indifferenza, accettando flebilmente tutto ciò che il crudele destino pare volergli riservare. La maturazione in tal senso è evidente nel momento in cui il giovane, incapace di far ritorno a casa e affrontare la realtà, decide di ripercorrere i personaggi che ha conosciuto durante la sua bizzarra giornata, ricostruindo di senso il proprio mondo, aggiustando un mattone sopra l’altro, piano piano ma in maniera decisa. Quella che sembrava una fuga diventa l’imbocco di una via che gli permetterà di accettare totalmente la morte del padre, tornando a casa con un nuovo atteggiamento, se non proprio positivo senz’altro più costruttivo.

Fin qui, direte voi, tutto ok, sembra tutto molto interessante. Ci si chiede insomma dove stia il trucco, dove l’inghippo. Al di là del pedinamento e degli inevitabili rimandi ideali sia al neorealismo sia alla nouvelle vague sudamericana quello che disturba di più della prova di Eimbcke è la sua incapacità di far quadrare il cerchio con una scelta stilistica davvero ardita: quella di costruire l’intero film su breve sequenze a camera fissa, intervallate da sfondi neri di pohi secondi. Non uno svolazzamento, non un piano-sequenza, non una camera a mano. Niente di tutto ciò. Il regista decide di annullarsi completamente, eliminando consapevolmente anche ogni intervento sul montaggio, con un risultato ascetico che preso a termini di paragone porterebbe a rivalutare Rossellini come un virtuoso della macchina da presa.

A complicare la decisione di lasciarsi andare a questo staticismo assoluto si aggiunge un deciso gioco di silenzi Bresson-iani e di lunghe pause e tempi morti, elementi purtroppo molto spesso ravvisabili in certo cinema d’essai post-moderno. Inutile dire che tutto ciò appare un artificio totalmente gratuito che appesantisce notevolmente un soggetto senz’altro in sé interessante. La mancanza totale di ritmo e l’apparenza di un continuo immobilismo fanno scattare perfino qualche sbadiglio, nonostante la pur breve durata dell’opera. Insomma, ancora una volta sembra che il peso di Antonioni ci ricada interamente sulle nostre fragili palle. Speriamo che il prossimo film indipendente si ricordi che oltre all’arte esiste uno spettatore in carne e ossa.

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