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8/10

Broken Flowers regia di Jim Jarmusch

Drammatico
recensione di Fulvia Massimi

L’arrivo di una misteriosa lettera in carta rosa sconvolge la ripetitiva routine di Don Johnston, dongiovanni (di nome e di fatto) consumato dall’età e dalla noia e appena scaricato dalla baby-fidanzata. Per scoprire, con vent’anni di ritardo, quale donna del suo passato gli abbia dato un figlio, l’uomo si imbarca in un road-trip dagli esiti incerti che lo porterà a fronteggiare i fantasmi di una giovinezza ormai perduta.

Nella sua breve quanto altalenante “carriera”, Jean Eustache percorse la Croisette una sola volta, nel 1973, anno in cui il suo imponente La maman et la putain (217′) veniva insignito del Grand Prix della Giuria. Quella stessa menzione d’onore – riconoscimento di originalità e spirito di ricerca cinematografica – l’avrebbe ricevuta, trentadue anni più tardi, Broken Flowers di Jim Jarmusch, che a Eustache è esplicitamente dedicato.

Rendendo omaggio ad uno degli outsider del cinema francese anni ’60 (e dunque indipendente tra gli indipendenti), Jarmusch non fa che ribadire la solidità strutturale di una carriera fondata sulla sperimentazione e sulla rottura dei canoni cinematografici tradizionali, mossa dal desiderio costante di navigare controcorrente (quella stessa ‘corrente’ che al tempo dei Giovani Turchi prendeva il nome di ‘vague’).

In Bill Murray, assurto ad attore-simbolo del cinema indie americano (Wes Anderson in testa, che ne ha fatto il feticcio assoluto della propria filmografia), trova post-moderna incarnazione il prototipo del “soggetto esistenziale” indagato dalla Nuova Ondata francese (e rappresentato all’epoca dal Michel Poiccard di À bout de souffle): un’anima persa, priva di scopo o direzione, al punto annoiata e sconfortata dalla vita da preferire il nulla al “dolore idiota”.

Col Don Giovanni carnale e insaziabile dell’opera mozartiana il Don Johnston canuto e abulico di Jarmusch non ha più molto in comune: nella sua quotidianità stanca e meccanica si compie il destino preconizzato da Kierkegaard in Enten Eller, la precipitazione dello stadio estetico in uno stato di indifferenza e demotivazione, dove l’esaurimento degli stimoli sensuali della vita lascia il posto ad una disperata crisi identitaria, al niente.

L’annuncio epistolare di una prole sparsa per il mondo (seguito in tutto il suo itinerario postale nella splendida sequenza che anticipa i titoli di testa) non smuove le fondamenta statiche di Don, intento a guardare The Private Life of Don Juan di Alexander Korda solo per rimirare il proprio riflesso sbiadito in quello specchio moderno che chiamano ‘televisione’. L’entusiasmo di cui è totalmente sprovvisto (e che non riacquisterà mai) contagia invece il bizzarro vicino di casa Winston (il poliedrico Jeffrey Wright), improvvisato Sherlock Holmes dai mille lavori e col pallino per i “ritmi etiopi” (le musiche di Mulatu Astatke accompagneranno il viaggio del protagonista come un leitmotiv martellante, riconfermando l’interesse di Jarmusch per la commistione dei coefficienti visivo-sonori).

È solo grazie alla spinta (e all’impeccabile planning) dell’amico che l’avventura di Don può avere inizio e, con essa, la riscoperta di sé, che giunge come un’illuminazione soltanto a conclusione di un percorso inutile e privo di risposte. La frustrazione del personaggio si radica in quella dello spettatore, i cui quesiti iniziali non trovano alcuna risoluzione, e il film di Jarmusch si presenta infine come un “labirinto senza centro” di borgesiana memoria: un “jigsaw puzzle” che, nel caso di Broken Flowers (il titolo è quantomai significativo), non trova il suo pezzo mancante, la sua “Rosebud”.

Ognuna delle donne lasciate da Don, e poi incontrate a due decenni di distanza, potrebbe essere quella giusta, ognuna dissemina indizi e motivazioni (in positivo o in negativo) che potrebbero portare alla risoluzione del mistero ma il vecchio seduttore non ha la tempra né il desiderio reale di sondarne il fondo e si limita a contemplare uno ad uno i bilanci della sua passata vita amorosa, nessuno dei quali appare particolarmente confortante.

La frivola Laura (Sharon Stone), con nabokoviana figlia a carico (anche per lei omen nomen), e la triste Dora/Nora (Frances Conroy) condividono l’angoscia latente di una vita apparentemente “normale” (la prima rinchiusa nel santuario del marito defunto come in un quadro di Hopper, la seconda nel nido d’amore di un moderno Torvald Helmer, tutto vezzeggiativi e tinte pastello) mentre le insicurezze della “dottoressa” Carmen (Jessica Lange) sono rivestite da una patina di sfrontata indipendenza. Gli unici sentimenti autentici si manifestano in conclusione, nella collera sopita e mai superata di Penny (Tilda SWinton) e nelle lacrime finalmente vere, oneste, disperate, di Don Johnston di fronte alla tomba di una donna amata e forse indimenticata.

Il pianto diventa sfogo liberatorio e presa di coscienza di un’esistenza sprecata, di cui si cercano di recuperare gli ultimi strascichi prima che sia troppo tardi: l’incontro con un giovane che potrebbe essere quello a lungo cercato risveglia in Don sentimenti paterni di cui sembrava sprovvisto. Il passato è andato, e il futuro non è ancora arrivato, tutto ciò che rimane, tutto ciò che conta è il presente: a questo si riduce l’esistenzialismo di un personaggio spaesato, i cui sguardi nel vuoto convergono infine in un unico, lunghissimo, sguardo oltre l’obiettivo, rivolto (forse) a quel presente ora tanto rivalutato e inizialmente lasciato scivolare via.

La regia contemplativa di Jarmusch, fatta di inquadrature diegeticamente immotivate e lunghi primi piani silenziosi, riflette l’apatia del proprio protagonista e il lavoro di totale sottrazione recitativa attuato da Murray si regola di conseguenza. La rinuncia all’uso dell’amato b/n viene compensata da un uso espressivo del colore (grazie anche alla fotografia del lynchiano Frederick Elmes), che fa del rosa (floreale ma non solo) la dominante cromatica dell’amore spezzato.

La nausea sartriana ha poco a che fare con lo smarrimento esistenziale investigato (con le tecniche del giallista Winston) da Jarmusch, che trova piuttosto nell’ennui il principio immanente della sua decima pellicola: una noia che affossa ogni afflato vitale, specialmente quello degli spettatori più iperattivi, caldamente invitati ad astenersi dalla visione.

 

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