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7/10

I Guardiani del Destino regia di George Nolfi

Fantascienza
recensione di Fulvia Massimi

La sera del suo fallimento elettorale il candidato senatore David Harris incontra la ballerina Elise e se ne innamora al primo sguardo ma il destino, incarnato dagli agenti speciali dell’Adjustment Bureau, ha in serbo per lui un piano diverso, lontano dalla donna amata: un piano a cui David non ha nessuna intenzione di sottomettersi.

Negli otto anni necessari a realizzare il suo film d’esordio George Nolfi (produttore, autore e regista) si è fatto le ossa sceneggiando per altri (Steven Soderbergh e Paul Greengrass, giusto per citare due nomi noti) ma senza mai perdere di vista il proprio obiettivo: portare sul grande schermo The Adjustment Team di Philip K. Dick, autore, postumo, tra i più amati dalla Hollywood che conta.

L’obiettivo sembra essere stato (parzialmente) raggiunto: con I Guardiani del Destino (il titolo originale, The Adjustment Bureau, modifica leggermente quello del breve racconto dickiano), thriller fanta-sentimentale dai risvolti filosofici (un must della stagione dopo Non Lasciarmi di Mark Romanek e Source Code di Duncan Jones), Nolfi rende omaggio all’autore cult dello sci-fi americano realizzando un’opera prima suggestiva, priva della complessità e della forza autoriale raggiunta da cineasti “dick-heads” quali i fratelli Wachowski (Matrix, V per Vendetta) o Christopher Nolan (Inception) ma rispettosa della sua matrice letteraria.

Nella pellicola di Nolfi convergono infatti molte delle tematiche portanti del pensiero di K. Dick (a loro volta figlie delle distopie huxleyane ed orwelliane)  più volte riprese in adattamenti cinematografici “autorizzati” e non: il dissidio universale tra amore e legge (filtrato in Blade Runner dalla rilettura “positivi” di Scott), l’ingiustizia dei sistemi di regolazione sociale e penale (Minority Report, A Scanner Darkly), la percezione di sentirsi braccati e tenuti costantemente sotto il controllo di un Grande Occhio/Grande Fratello onnisciente ma nascosto, un principio metafisico e impronunciabile cui non si riesce ad attribuire altro nome che quello fittizio (qui “the Chairman”, italianizzato ne “il Presidente”).

L’impressione di essere parte integrante, ma al contempo insignificante, di una società governata da un totalitarismo invisibile, che priva l’individuo del suo potere decisionale e ne annulla il libero arbitrio, si fa costante dell’esistenza di David Harris, politico giovane e (quasi) di successo (non più agente assicurativo come nel racconto originale), “destinato” a cambiare il mondo ma costretto a scegliere (se poi di scelta si possa effettivamente parlare) tra Dovere (imposto) e Amore (pre-destinato).

Nolfi non nasconde le implicazioni teologiche (nonché quelle politiche) del testo dickiano e, al contrario, le esplicita, suggerendo la natura “angelica” delle Sentinelle del Caso (incarnata dal “poliziotto buono” Harry Mitchell/Anthony Mackie) e affidando al personaggio di Thompson (l’australiano Terence Stamp) il compito di spiegare l’esistenza di un’istanza regolatrice e “divina” (impossibile attribuire altro significato all’entità superiore che governa il reale per mezzo di un “Piano”), necessaria a contenere l’irrazionalità behaviouristica del genere umano, in un monologo che riecheggia il pensiero dell’Agente Smith in Matrix.

Come Neo anche David sperimenta il privilegio (e il tormento) di una verità rivelata ma le implicazioni cartesiane che essa comporta (la precarietà del concetto di “realtà” è, d’altronde, un altro dei topoi ricorrenti nelle opere di Dick) non trovano, ne I Guardiani del Destino, spazio sufficiente per svilupparsi e si sottomettono alle ragioni sentimentali di un plot che eleva la costituzione della coppia a linea drammatica privilegiata. Amor vincit omnia: il legame inscindibile tra David ed Elise resiste alla pianificazione del Fato come allo scorrere degli anni, esplicitandosi in una configurazione temporale – creata ad hoc dal montaggio di Jay Rabinowitz (suo anche l’editing eccellente di The Tree of Life di Malick) – che senza didascalie non lascerebbe supporre alcun cambiamento, fisico e emotivo, dei due personaggi principali.

L’umanità ama e soffre e il suo impellente bisogno di “provare” qualcosa per dimostrare di essere viva, di non essersi ancora sottomessa ad una para-realtà sterile e vincolante, la distanzia da quelle creature automatizzate che vorrebbero soggiogarla: senza raggiungere l’azzeramento emozionale degli androidi di Blade Runner, le Sentinelle de I Guardiani del Destino si dichiarano dotate di sentimenti ma al contempo rivelano, nella loro attitudine fascistoide ed ossessivamente rigorosa (ben rappresentata dal “mad man” John Slattery/Richardson), di esserne all’oscuro, anzi, di non conoscerne affatto le ragioni.

Matt Damon, attore ideale per vestire i panni del common man mai troppo comune, si infila in quelli di David Harris come in una seconda pelle, facendo del proprio personaggio il simbolo di quella umanità allo stesso tempo spaesata dalle rivelazioni ottenute e rinfrancata dalle convinzioni mai abbandonate,: l’assoluta e incrollabile fiducia nella forza motrice dell’amore (non era forse così anche per l’Eletto Keanu Reeves?). Ed è nella credibilità della sua performance, come in quella dell’ottima comprimaria Emily Blunt (cui, fortunatamente, non servono i massacranti allenamenti della Portman per risultare verosimile come ballerina moderna) che risiede l’efficacia e l’intensità empatica dei due protagonisti.

Oltre ad un cast ben assortito l’esordiente Nolfi si avvale di collaboratori non meno preziosi sul versante tecnico e artistico: alla fotografia di JohnToll e alle musiche inconfondibili di Thomas Newman si deve l’atmosfera ultra-moderna (seppur meno futuribile e più ancorata alla contemporaneità di altre pellicole d’ispirazione dickiana) della New York “metafisica” del film, una città che all’artificialità fredda e indifferente degli spazi chiusi e geometrici oppone la libertà di movimento e il dinamismo frenetico di quelli aperti e vitali.

Nonostante le buone intenzioni e intuizioni I Guardiani del Destino non è certo un film privo di difetti: il ritmo, condotto in modo altalenante per buona parte del film, si stempera fino a perdersi completamente nelle battute finali e in un montaggio alternato che non consente alla tensione di dispiegarsi nella sua pienezza (il ricongiungimento dei due amanti non ha la forza di quel “last minute rescue” alla Griffith che renderebbe ancora più appassionante la fuga conclusiva). La complessità del pensiero dickiano si trova così penalizzata dall’eccessiva semplificazione, per non dire banalizzazione, del finale (con superflua chiusa – e chiosa – didascalica) e l’opera prima di Nolfi sacrifica sull’altare di una frettolosa concisione (e conclusione) i traguardi precedentemente raggiunti.

Venenum in cauda, insomma, ma in questo caso lo scorpione si punge da solo: scegliendo di non osare abbastanza e di non sondare le profondità di una riflessione tanto affascinante quanto eterogenea, Nolfi non riesce a fare centro al primo colpo ma il suo esordio lascia ben sperare in lavori futuri dotati di quello spessore qui ancora abbozzato.

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