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10/10

Moonrise Kingdom regia di Wes Anderson

Drammatico
recensione di Fulvia Massimi

Settembre 1965. Sull’isola di New Penzace, New England, due dodicenni “emotivamente instabili” tentano una fuga d’amore. Genitori in crisi (Frances McDormand, Bill Murray), poliziotti tristi (Bruce Willis) e solerti capi-scout (Edward Norton) si metteranno sulle loro tracce, minacciando di rovinarne l’idillio, ma un temporale di proporzioni epiche potrebbe venire in loro soccorso.

“Strano è chi lo strano fa”, potrebbe essere il motto di Wes Anderson, texano atipico e dalla mente geniale, sotto il cui sguardo curioso il cinema si trasforma in magia. Sempre fedele a se stesso e al proprio stile inconfondibile, Anderson approda in apertura all’ultimo Festival di Cannes con una pellicola che è la quintessenza stessa del suo fare cinema: originale e surreale ma dotato di una sensibilità unica nel suo genere.

«Tonight’s film is a touching story about two misunderstood young lovers on the run. It’s got thrills, adventure, comedy, romance, Bruce Willis, and you might find yourself moved to tears. It’s called Moonrise Kingdom. Why? I don’t know.» È Jason Schwartzman, favoritissimo alla corte di Anderson (e per ovvie ragioni), ad offrire la miglior definizione dell’opera ultima del visionario regista, che, come già per The Darrjeeling Limited, realizza un esilarante corto d’accompagnamento (Cousin Ben Troop Screening with Jason Schwartzman) per stuzzicare l’attenzione “virale” dei suoi fan. E basterebbero le poche, rapidissime parole pronunciate da Schwartzman per farsi un’idea di cosa Anderson abbia in serbo per noi. Moonrise Kingdom - storia d’amore pre-adolescenziale dai contorni fiabeschi (niente paura, il mistero del titolo sarà risolto nel finale) – si inserisce alla perfezione nel solco della filmografia andersoniana, segnando uno dei momenti più alti nella carriera del regista de I Tenenbaum, mai afflitto da segni di stanchezza o cedimento creativo, ma al contrario capace di rinnovarsi e migliorarsi continuamente senza scendere a compromessi. Per la  gioia continua dei suoi estimatori. Da sempre cantore dei freaks e della rivincita dei nerd contro i soprusi dei (pre)potenti, Anderson non si normalizza mai (e meno male) né rinuncia a temi e stilemi caratteristici della propria cinematografia, continuando imperterrito a professare un gusto barocco per la sovrabbondanza di profilmico e per gli eccessi cromatici di tappezzerie e guardarobi improbabili (ad opera della costumista Kasia Walicka-Maimone). Reduce dall’esperienza geniale dell’animazione a passo uno – con l’incredibile candidato all’Oscar Fantastic Mr. Fox - il cineasta di Houston, non nuovo a pratiche autocitazionistiche, non si allontana dall’impianto in scala ridotta della stop motion, continuando a trattare location e personaggi in carne ed ossa come pupazzi di un set in miniatura. L’uso della carrellata laterale, i movimenti di macchina improvvisi come colpi d’occhio e la costruzione di studiatissimi tableaux vivants collaborano alla costruzione di un regno incantato – “kingdom”, appunto – dove i consueti riferimenti zoologici (la passione di Anderson per la tassidermia è cosa nota), si uniscono al gusto per il dettaglio, all’oggettistica da inventario e ad un’immagine che, più che parlare da sola, preferisce rivolgersi direttamente allo spettatore, quasi fosse (e lo è) studiata apposta per lui. Dimostrando una consapevolezza registica di stampo “hitchcockiano”, Anderson sa come toccare le corde del proprio pubblico: fare film non è mai un atto masturbatorio o fine a se stesso, ma una dichiarazione d’affetto verso chi siede in sala e  si sente chiamato ad abbandonare la passività imposta dallo schermo per entrarvi anima e corpo. La sceneggiatura scritta a quattro mani con Roman Coppola ci prende per mano, conducendoci lungo i sentieri senza nome dell’isola di New Penzace come fossimo khaki scout alle prime armi. La narrazione si svela a poco a poco, come un’esplorazione, un’affascinante avventura accompagnata dalle musiche onnipresenti di Alexander Desplat (talvolta ingigantite fino a sovrastare l’immagine) e dal  Noye’s Fludde (1958) del compositore britannico Benjamin Britten, della cui opera – splendidamente inserita nel film, Anderson rende un omaggio appassionato. La pratica del guest starring (camei per Tilda Swinton e Harvey Keitel) e del riuso di veri e propri attori-feticcio (Bill Murray e Jason Schwartzman su tutti) è ormai così radicata da passare quasi inosservata, ma l’introduzione della coppia di giovanissimi esordienti Jared Gilman e Kara Hayward  - così “andersoniani” da sembrare fatti apposta per la parte -costituisce un vivace diversivo. Dell’universo fantastico di Anderson, dove la creatività e l’intraprendenza ingenua dei bambini regna sovrana, Sam Shakusky e Suzy Bishop sono gli emblemi perfetti: pur con i loro difetti, le esplosioni di rabbia e le turbe emotive, incarnano la spontaneità, la tenerezza e la semplicità di una gioia di vivere che sembra perdersi con l’età adulta. Nessuno meglio di Wes Anderson sa raccontare le disfunzionalità familiari nell’America contemporanea con la stessa scanzonata ironia, dipingendo ritratti di coppie in crisi coniugale (Murray e Frances McDormand), genitori assenti (per non dire del tutto indifferenti) e rapporti affettivi (dis)turbati da un’educazione folle e abulica, che lascia gli adolescenti in preda alle proprie tempeste ormonali, senza offrire alcun aiuto. Quando non si trasformano in eterni Peter Pan (come i fratelli de I Tenenbaum) con le stesse, identiche passioni dell’infanzia (magnifico il ruolo di Scout Master Ward ritagliato per Edward Norton), gli adulti non meritano alcuna considerazione e fanno semplicemente la figura degli idioti senza cuore, al punto da dover essere letteralmente “separati” dal resto del mondo grazie alla tecnica dello split-screen (è il caso di Tilda “Social Services” Swinton e del padre adottivo di Sam). Anderson difende i deboli, i reietti, gli emarginati, detestati non tanto per i torti commessi (specialmente quando non ce ne sono) ma semplicemente perché “non piacciono a nessuno”, elevandoli infine in piccoli eroi da aiutare a tutti i costi. Il suo Moonrise Kingdom non è soltanto l’ennesima variazione sul tema del diventare grandi senza mai perdere il proprio spirito infantile, ma è anche è un inno all’amor vincit omnia, alla purezza di un sentimento che non teme restrizioni sociali e ostacoli familiari, e che unisce due solitudini “particolari” creando un Nuovo Mondo fatto apposta per accoglierne la diversità. Il cinema di Anderson non è, e non sarà mai (si spera), un cinema del reale, ma piuttosto del sur-reale: sono l’assurdità e la stranezza ad alimentare il suo universo visionario, che si dispiega di fronte allo spettatore come gli scenari e le figure di un colorato, magnifico libro pop-up (raccontato, non a caso, dall’insolito “narratore” Bob Balaban). Anderson vorrebbe insegnarci a non sminuire mai le nostre capacità d’immaginazione, a comportarci come Sam e Suzy, che trovano rifugio in romanzi fantastici, poteri magici e territori inesplorati da ribattezzare e colonizzare a proprio piacimento. Le sue fiabe moderne, spesso venate di malinconia e depressione, segnate dall’abbandono o da una indefinita tristezza, non rinunciano mai al lieto fine catartico – per quanto esplosivo (o meglio, fulminante) possa essere – e hanno il potere sorprendente di renderci più leggeri, come se le preoccupazioni di tutti i giorni fossero davvero poca cosa. Ed è proprio questo il potere magico di Wes Anderson, che usa la macchina da presa come il binocolo di Suzy. Perché a volte c’è bisogno di un piccolo aiuto per “vedere le cose più da vicino, anche quando non sono poi così lontane”.

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Voto degli utenti: 8,3/10 in media su 16 voti.

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misterlonely (ha votato 7 questo film) alle 14:34 del 25 ottobre 2012 ha scritto:

Film bellissimo, anche se non da 10 e di certo non il migliore di Wes Anderson. Si rimpiangono un po' i dialoghi di film come i Tenenbaum o di Le avventure acquatiche e, in un certo senso, si rimpiange un cinema più reale e meno "cartoonesco" e disegnato. La cura stilistica di Anderson in Moonrise Kingdom è tale da intervenire costantemente sui paesaggi facendo spesso pensare che il film sarebbe stato quasi migliore e più credibile in stop motion. Vale la pena segnalare un Edward Norton in stato di grazia e un favoloso Bruce Willis. Rushmore rimane inarrivabile.

loson79 (ha votato 8 questo film) alle 22:12 del 13 dicembre 2012 ha scritto:

"Wes l'è sempre lò", avrebbe detto mio nonno. Forse il suo film migliore... Di certo bissa i due centri pieni di "Rushmore" e "I Tenenbaum".

Peasyfloyd (ha votato 10 questo film) alle 13:08 del 24 dicembre 2012 ha scritto:

capolavoro sublime. Ogni immagine un quadro. Ogni dialogo un'attesa dell'imprevedibile. Spettacolare

forever007 (ha votato 8 questo film) alle 14:56 del 11 maggio 2013 ha scritto:

Dal punto di vista registico ammetto che è meraviglioso, la dolcezza dei personaggi e l'impatto emotivo complessivo del film costituiscono esempi di recitazione da manuale, cioè sono perfetti, ma il 10 è troppo, perchè la trama non è così originale, a mio avviso..