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R Recensione

7/10

La Pecora Nera regia di Ascanio Celestini

Psicologico
recensione di Fulvia Massimi

 

Orfano di madre (morta in manicomio), affidato ad una nonna contadina e ignorante, debole a scuola e con un padre assente, Nicola viene rinchiuso, ragazzino, al Santa Maria della Pietà di Roma. Vent’anni di “terapia” più tardi, ripercorre le tappe dell’infanzia che lo portarono all’internamento, dividendo le proprie giornate tra il supermercato e l’istituto, con la compagnia costante del suo migliore amico.

 

Unico esordiente italiano in concorso a Venezia 2010, Ascanio Celestini scrive (con Ugo Chiti e Wilma Labate), dirige e interpreta l’adattamento cinematografico del proprio romanzo (e spettacolo teatrale) La Pecora Nera, delicatissimo sguardo sulla realtà manicomiale italiana pre-Basaglia.

Ambientata tra le mura del padiglione 18 (quello dei malati criminali), ristrutturato per l’occasione, la pellicola di Celestini cerca di liberarsi dei vizi più smaccatamente “teatrali” della pièce, conservandone però alcune caratteristiche peculiari. La voce-off monocorde del protagonista ritorna con insistenza ossessiva sugli eventi significativi del proprio passato, sovrapponendosi a quella dei personaggi rievocati in flash-back o raccontando aneddoti in un inarrestabile flusso di parole. Il pigolio di una gallina o la canzone ascoltata in riva al mare (“Io che t’ho fatto ti disfo, come t’ho fatto ti disfo”) si trasformano in leit motiv e le individualità ricordate si fondono fino a diventare sfaccettature diverse di una stessa mente schizofrenica.

Nella semplicità quasi minimale della sua messa in scena, Celestini sceglie di non mostrare la violenza elettrica del manicomio, lasciandola fuori campo, compresa nel racconto di un Nicola adulto che ancora si esprime come il Nicola bambino, una giovinezza imprigionata dentro cento cancelli. Eppure la violenza c’è, se un uomo sceglie di togliersi la vita spaccandosi il cranio contro un calorifero e un bambino muore per sbaglio sotto lo sguardo volontariamente impotente di due compagni di gioco.

I matti fanno ridere finchè non diventano pericolosi sembra insegnare l’ottimo Giorgio Tirabassi, impegnato a contare le puzze della vecchia suora con i soldi, ossessionato dalle “donne che leccano gli òmini nudi”, dall’opulenza alimentare del supermercato, dai cinesi che clonano tutto (tranne la pecora del titolo). Ognuno ha le proprie fissazioni: Nicola, più pacato, si accontenta dell’ordine che fa ritrovare ogni cosa e di Marinella (Maya Sansa), l’amore “di un attimo”, che si permette di offrirgli il caffè al banco promozioni. Ma il confine tra follia e sanità non è netto come sembra quando la mente smette di percorrere i binari della “normalità”.

In quel “condominio di santi” che è l’istituto non si guarisce, si ingoiano pillole e non ci si interroga sul perchè. Un ragazzino nato negli anni sessanta (“i favolosi anni sessanta”), appassionato di marziani e cremini (non si accontenta di uno, ne vorrebbe cento), taciturno nel suo costume da coniglio che “puzza di manicomio”, non può avere immaginazione: si “inventa le cose”, non può andare male a scuola: ha qualcosa che non va nella testa. Solo una prostituta in tenuta marziana potrebbe capirlo veramente ma la notte la inghiotte e non se ne saprà più nulla.

Celestini muove la sua critica senza urlare, con un rispetto ed una pacatezza di toni che non hanno niente in comune con l’eclatante esibizionismo cui la pazzia è spesso ridotta sul grande schermo. La comicità del folle si trasforma in umorismo pirandelliano e ad un certo punto non si ride più. L’insensatezza di una reclusione frutto di povertà e ignoranza appare tanto evidente quanto più ci si addentra nella condizione di Nicola: una mente bambina, illuminata da flash di lucidità adulta che non sanno essere definitivi. Un ergastolo cerebrale che non si riesce a rimettere in ordine.

Adriano Pallotta, ex infermiere del Santa Maria, e Alberto Paolini (per lui un cameo nel finale), ex paziente che nel manicomio ha trovato per quarant’anni la propria casa, offrono i propri racconti di vita all’opera teatrale e cinematografica di Celestini, riempiendola di un senso che va oltre quello finzionale e sfocia in un realismo carico di sensibilità.

V Voti

Voto degli utenti: 9/10 in media su 2 voti.
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alexmn 9/10

C Commenti

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Peasyfloyd (ha votato 9 questo film) alle 9:56 del 18 marzo 2011 ha scritto:

incantevole

bellissimo davvero! Visto ieri sera con grande gusto. Grande Celestini ma ottimo anche Giorgio Tirabassi!

hayleystark, autore, alle 19:24 del 18 marzo 2011 ha scritto:

Tirabassi è stato una vera sorpresa, confermata poi da I Figli delle Stelle di Pellegrini. Col senno di poi fa uno strano effetto pensarlo in Distretto di Polizia. E Celestini ha una sensibilità unica, nel modo in cui riesce a passare da un tono quasi comico all'angosciante realtà della malattia mentale. Un piccolo film verso cui ero un po' diffidente ma che alla fine mi ha conquistato.

alexmn (ha votato 9 questo film) alle 21:33 del 21 marzo 2011 ha scritto:

stupendo.

mi ha veramente rapito questo film. l'ha fatto in un modo sottile a cui non ho potuto/voluto resistere.

celestini immenso. tirabassi ottimo, anche come dop nelle sue comparsate in boris.