A Qualche Riga in Piu sul Capolavoro Moonrise Kingdom

Qualche Riga in Piu sul Capolavoro Moonrise Kingdom

 

tous les garçons et les filles de mon âge savent bien ce que c'est d'être heureux…et les yeux dans les yeux et la main dans la main..

Un giorno, mentre il giudizio universale era imminente e Noè dall’alto della sua arca cercava di radunare famiglia e animali, un giovane e occhialuto boy scout incontrò uno stupendo esemplare ferito di corvo femmina. Non avrebbe dovuto trovarsi lì, ma la noia per la rappresentazione dell’opera di Benjamin Britten (Noye's Fludde) l’aveva spinto a esplorare i camerini fino a incontrare il suo destino, o almeno quello che pareva essere tale. Uno sguardo soltanto. Suzy Bishop, una Francoise Hardy in erba, calze bianche al ginocchio, vestito sixties corto-sotto e accollato-sopra, le scarpe della domenica, un binocolo magico per guardare lontano e il fascino di quelle ragazze che crescono prima delle altre. Uno sguardo soltanto e la storia si scrive da sé, la simbiosi istantanea di anime che già sapevano di essere gemelle. Sam Shakusky, un giovane Wes Anderson o una personificazione idealizzata del suo fanciullino interiore con brividi, lagrime e tripudi suoi, quello che sa scoprire ciò che sfugge ai sensi e alla ragione dell’uomo cresciuto. Boy scout emarginato da chi non fa uno sforzo per capire il suo essere oltre gli schemi, il suo vivere in un mondo personale dove la bussola non segna necessariamente il nord. Uno diverso come sanno essere diversi quelli che sono diversi, un ideale fratello maggiore per Peter Fortune sdraiato nel prato a contemplare il cielo e per Max con il suo paese di creature selvagge. Il loro è un maturo amore acerbo, inconcepibilmente profondo per chi lo osserva/giudica fuoricampo. Siamo negli anni ’60, un passato-età dell’oro sublimato al punto da diventare il surrogato ideale del presente per il regista newyorkese e per i suoi personaggi border-snob fuori e fragil-complessi dentro.

Carrelli, panoramiche e contro-carrelli verticali-e-orizzontali ci presentano i componenti della famiglia Bishop all’interno dell’architettura impossibile di una casa che ritorna sempre a Suzy in attesa con il suo binocolo: mamma Frances McDormand con megafono in versione padre di famiglia, papà Bill Murray in costante mood a pelle d’orso da ghostbuster in pensione, un trio di fratellini in vestaglietta scozzese o improbabili pigiami che passano la giornata tra Britten e giochi d’altri tempi, quei tempi. A Summer’s End Suzy attende soltanto una lettera.

Dall’altra parte dell’isola il capo scout Ward, un Edward Norton in gran forma e temporaneamente libero dall’opprimente recitazione Actors Studio, guida la sua sgangherata compagnia di piccoli bastardi senza gloria a Camp Ivanhoe. Una mattina, durante la solita ispezione, si accorge che il problematico Sam è abilmente scappato dalla sua tenda come uno strambo Lupin in fuga nell’uniforme che fu di Baden-Powell. Solo una scarna lettera di dimissioni dai Khaki Scouts per abbandonare uno dei tanti luoghi dove è mal voluto, un fuggitivo della vita.

Finalmente l’incontro di due solitudini, il colpo di fulmine. L’antico sentiero di migrazione dei Chickchaw, cibo per gattini, il profumo della madre, libri rubati per avere un segreto, coping with the very troubled child, forbici per mancini e una rabbia depressa che esplode improvvisa. Poi un tuffo nella baia all’uno-due-tre, acquerellando giovinezze e curve acerbe, un giradischi splendidamente profanato con la Hardy, margherite tra i capelli, can you french-kiss, sulla spiaggia a ballare assieme come novelli Mia Wallace e Vincent Vega, sguardi tra giovani innamorati. La shakespearianamente necessaria separazione dei due Tenebaum primigeni è la classica svolta narrativa che fa ripartire il giro della storia.

In Moonrise Kingdom c’è Wes Anderson in purezza: dallo stile visivo pittorico in cui nessun elemento, movimento di macchina, stacco di montaggio è lasciato al caso o non giustificato, alla costruzione di nuovi personaggi nel personale studio etnografico della sua commedia umana passando per la cura maniacale nella costruzione di ogni aspetto del suo mondo, dettaglio imprescindibile per indurre nello spettatore una nostalgia per qualcosa che di fatto non esiste. O forse si, è sempre una questione di seconde stelle a destra. Ma in questo film c’è qualcosa che nel resto della sua filmografia mancava o era solo in potenza, c’è il cuore. Una parola fin troppo semplice che però esprime appieno il concetto, tanto che qualsiasi perifrasi non solo sarebbe inutile, ma farebbe perdere ogni spontaneità. Non sono mai stato a cena con Anderson, né ho nemmeno conversato amabilmente con lui davanti a un bicchiere di Pernod ascoltando This time tomorrow dei Kinks, però in ogni fotogramma del suo ultimo film è come se avesse trasferito parte della sua anima, del suo io più vivo-e-profondo, con uno slancio e una forza che vanno oltre storia e immagini. Cine-materia vibrante, vitale, inconsciamente incasinata come solo la primavera sa esserlo. Chi può dire se sia sproloquio critico o overinterpretation freudiana..quel che rimane sono le sensazioni, rinnovate ad ogni visione.

Cast eccezionale in cui, oltre ai due meravigliosi protagonisti Jared Gilman/Sam e Kara Hayward/Suzy, è da menzionare la prova di un Bruce Willis (il capitano Sharp della Island Police) in versione non-action che dimostra ancora di non essere bravo soltanto ad abbattere elicotteri con un taxi. Dietro la macchina da presa, il lavoro di Robert D. Yeoman sa esprimere a livello fotografico la visione registica con una pazzesca simbiosi artistica. Impossibile non citare tutto il reparto scenografia (Adam Stockhausen, Gerald Sullivan e Kris Moran) e costumi (Kasia Walicka-Maimone) che contribuiscono in modo imprescindibili alla creazione di un’immaginario. Il maestro Alexandre Desplat, forse il migliore compositore di colonne sonore in circolazione, cesella armonie che s’integrano alla perfezione con il repertorio classico. Dimenticavo: non c’è Owen Wilson, però lo possiamo immaginare come un lontano cugino o come il fratello di Jason Schwartzman, scout fuori tempo massimo e prete all’occorrenza, o come il figlio di quell’anziano reduce di altre avventure acquatiche che ci illustra a mo’ di mockumentary l’isola di New Penzance dove il film è ambientato.

La pazzia dell’amore strampalato nel favoloso mondo vintage-aristo-kitsch di Anderson, redenzioni dall’alto di case sull’albero costruite troppo in alto, la tempesta/diluvio universale che lava le coscienze e spinge l’uomo a scelte che altrimenti non avrebbe fatto, un po’ come le rane in Magnolia, sentimenti che non dovrebbero spegnersi e le scuse per ferite che fanno ancora male. Vita-e-cinema senza soluzione di continuità.

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