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9/10

Il Treno Per Il Darjeeling regia di Wes Anderson

Comedy
recensione di Marta Satta

Jack, Peter e Francis Whitman non si parlano da un anno. Esattamente dal giorno del funerale del padre. Che coincide anche con il giorno in cui la madre li ha abbandonati. E' una tipica famiglia andersoniana, sgangherata e aristocratica, quella che conosciamo durante un viaggio in treno in India. Un viaggio per ritrovare rapporti perduti e sciogliere legami troppo forti.

Vincitore del Leoncino d'Oro 2007 alla 64° Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia, Il treno per Darjeeling è il quinto lungometraggio della brillante carriera di Wes Anderson. Dopo I Tenenbaum e Le avventure acquatiche di Steve Zissou, Anderson realizza una nuova commedia agrodolce, un nuovo ritratto di famiglia. I protagonisti del film sono i tre fratelli Whitman: Francis (Owen Wilson), Peter (Adrien Brody) e Jack (Jason Schwartzman). Dopo un anno passato senza mai sentirsi, si ritrovano tutti e tre sopra un treno turistico per il Darjeeling per un viaggio organizzato da Francis, il quale, dopo un brutto incidente in moto, sente il bisogno di ritrovare il rapporto perduto con i fratelli. Ci ritroviamo di fronte a un mondo - che è quello dei tre fratelli ma anche il mondo contemporaneo - fatto di piccole manie, di paure, di nevrosi, di coraggio, di parole che non sanno uscire e parole che escono troppo facilmente. Francis parla troppo, controlla troppo, ordina da mangiare non solo per lui, ma anche per i fratelli. Peter parla poco, quasi niente, si mostra debole e legato a ricordi che probabilmente non esistono. Jack più che altro ascolta, ma scrive anche, forse per compensare delle mancanze. Racconta di storie che dovrebbero essere inventate ma in realtà  sono le sue, sono le loro.

I tre fratelli Whitman si compensano e sono uniti da un mito troppo grande per loro: il padre. Pur non sapendo nulla di lui se non che è morto in un incidente stradale, tutto il film è attraversato dalla sua aurea. Più che un legame, un' oppressione, un doversi dimostrare sempre all'altezza di quest'uomo che non vediamo mai, se non attraverso le sue undici valigie che i figli portano ovunque. Una figura ingombrante - come altri padri della filmografia di Anderson - in opposizione con la figura materna (Anjelica Huston), scostante e un po' codarda. Attraverso un lavoro di regia e di montaggio al di fuori dagli schemi, con pochi ma decisi movimenti di macchina e inquadrature fisse sui tre personaggi, atte a ricreare veri e propri ritratti di famiglia, Anderson dà  vita a un universo apparentemente ordinato ma eccentrico, in cui tutto sembra organizzato perfettamente, nonostante molte cose non abbiano un vero e proprio senso logico.

Un universo, quindi, che rispecchia perfettamente la personalità  dei tre protagonisti: tutti e tre hanno un'esistenza che, in un modo o nell'altro, funziona - hanno un lavoro, dei soldi, una moglie, una ex fidanzata - ma hanno il caos dentro, non sanno come affrontare le situazioni che la vita gli ha posto di fronte. Anche grazie a una colonna sonora come sempre raffinata ci troviamo immersi nell'originale creatività  di Anderson, quasi surreale, un po' assurda, ma tesa verso grandi e piccoli problemi reali, che delle volte trovano soluzioni, ma altre volte no. Come in ogni film suo film, dietro il grande lavoro tecnico, dietro la maniacale perfezione scenica “quasi per fare di ogni inquadratura un estroso quadro“ ci sono le emozioni. Tutti i personaggi - grazie anche alla scelta di attori ormai collaudati - hanno la capacità  di comunicare i propri sentimenti così da farli arrivare allo spettatore. Ma come nei precedenti film di Wes Anderson non c'è mai una sensibilità  urlata, eccessivamente esposta: tutto si risolve con un sorriso nascosto, o con una lacrima silenziosa. O con una bellissima liberazione finale.

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