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7/10

Je me tue à le dire regia di Xavier Seron

Black Comedy
recensione di Fulvia Massimi

 

Quando all’anziana madre (Myriam Boyer) viene diagnosticato un cancro al seno la vita del trentaseienne Michel Peneud (Jean-Jacques Rausin) si trasforma radicalmente. Convinto di aver sviluppato egli stesso un tumore, l’ipocondriaco Michel comincia ad avvertire gli stessi sintomi materni, rovinando il rapporto con la fidanzata e aspirante pittrice Aurélie (Fanny Touron) e votandosi ad un auto-imposto martirio.

Se il Jim Jarmusch di Stranger than Paradise e lo Xavier Dolan di J’ai tué ma mère avessero fatto un bambino, il risultato sarebbe Je me tue à le dire del belga Xavier Seron, presentato il 6 ottobre 2016 in apertura della sezione Temps Ø del Festival du Nouveau Cinéma di Montreal.

Il debutto al lungometraggio di Seron mescola l’approccio confessionale e lo spirito matriarcale-matricida dell’esordio dolaniano con la sensibilità hipster-weirdo dell’opera seconda jarmuschiana, ma il riferimento stilistico e tematico più immediato è la commedia dell’assurdo eutanasico Kill Me Please del connazionale Olias Barco, vincitore del Marc’Aurelio d’oro al Festival del Film di Roma nel 2011. Entrambi i film si situano infatti lungo lo spettro del cinismo esistenzialista, e affrontano con piglio sardonico i piccoli-grandi tabù del male di vivere contemporaneo fin dalle morbose sequenze d’apertura.

Fotografato in ruvido bianco e nero da Olivier Vanaschen per esigenze di budget oltre che di stile (il bicromatismo come ibridazione di realismo e astrazione), Je me tue à le dire indaga con umorismo caustico le nevrosi di un maschio medio in crisi d’identità, soffocato da un’edipico mai veramente risolto e dalle inquietudini del vivere quotidiano. Pentalogia in cinque capitoli dai titoli umoristici (il gioco di parole include quasi sempre un riferimento mammario) il film di Seron raggiunge vette di surrealismo sia umano che felino particolarmente audaci, in una serie di tableaux vivants al tempo stesso disturbanti ed esilaranti montati con rapsodia epilettica da Julie Naas.

“È dai nostri fallimenti che nasce la bellezza,” sostiene Seron, e come le fotografie leather in b/n di Robert Mapplethorpe rappresentavano per David Hickey l’epitome paradossale del bello che ferisce allo stomaco, così Seron trova la bellezza nei recessi più kitsch del vivere umano. Lo schema visivo architettato dal filmmaker vallone alterna infatti l’estetica pacata e statica dell’art house film con quella dissacratoria della black comedy, integrando i più immediati simbolismi materno-freudiani (il latte, i seni) con quelli, non meno ovvi, dell’iconografia neotestamentaria del Cristo in croce—di cui Michel diventerà l’esatto Doppelgänger nell’inquietante fotogramma conclusivo.

Quasi prevedibile nella sua eccentricità grounge sopra le righe, Je me tue à le dire funziona tuttavia come godibile panacea contro l’atavica paura della morte, e promette di non lasciare insoddisfatti gli aficionados della selezione più folle della kermesse montrealese, che in passato ne aveva sfamato gli appetiti più bizzarri grazie alle stravaganze hip-hop nipponiche di Sion Sono (Tokyo Tribe, 2014) e quelle nazi-punk di Jeremy Saulnier (Green Room, 2015).

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