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6/10

Katyn regia di Andrzej Wajda

Guerra
recensione di Alessandro Pascale

Nel 1939 la Germania hitleriana e l’URSS staliniana firmano uno dei patti di non-belligeranza più discussi della storia. Non durerà poi molto ma nel frattempo le due potenze trovano il tempo di spartirsi la Polonia. Così nel 1940 i sovietici commettono tra le tante efferatezze la strage di Katyn, in cui andarono a perire 15000 prigionieri di guerra polacchi. Nel 1941 la Germania dichiara guerra all’URSS e dopo aver conquistato i restanti territori polacchi scopre e diffonde la strage messa in atto dai sovietici. Ma la storia la scrivono i vincitori e nel 1945 il ritorno in auge dei sovietici significa attribuire la strage al nemico nazista. Ma i polacchi sanno la verità e non tutti accettano di sottostare alla menzogna.

Che tra russi e polacchi non corra buon sangue è cosa nota ormai, essendovi un conflitto che li oppone ormai da svariati secoli, con tanto di invasioni e spartizioni territoriali multiple. Che Andrzej Wajda poi non sia l’ultimo arrivato bensì il più eminente esponente del cinema polacco assieme all’hollywoodiano Roman Polanski (e in misura minore al Krzysztof Kieslowski del famoso Decalogo) è cosa altrettanto nota, mostrando anzi di sapersi mantenere su notevoli livelli, arrivando con Katyn alla quarta nomination agli oscar per il miglior film straniero dopo le tre precedenti di La terra della grande promessa, Le signorine di Wilko e L’uomo di ferro.

Meno noto è che Wajda perse il padre proprio per mano dei sovietici durante il secondo conflitto mondiale (seppur non a Katyn), motivo per cui c’è da chiedersi se il film non possa essere viziato da un possibile eccesso di zelo, per non dire di partigiana parzialità. Diciamolo subito: la risposta a questa domanda è no. Wajda è durissimo con i sovietici, come è giusto che sia. Ma lo è anche con i tedeschi, con i collaborazionisti e di sfuggita anche con gli alleati (inglesi e francesi) incapaci di soccorrere i polacchi. La questione però è proprio questa: Wajda non risparmia nessuno. Nemmeno i polacchi che per limitarsi a sopravvivere accettano di sottostare alla menzogna sovietica.

Questo porta ad un eccesso di melodramma per cui si scade spesso in un certo gratuito patetismo, in uno sguardo languido e romantico che vuole esaltare chi sceglie razionalmente la via del “suicidio” pur di salvaguardare la verità. Un atteggiamento quasi oltranzista che raggiunge l’apice quando viene introdotto un giovane (il nipote di Anna Uhlan) decisamnete troppo costruito e montato, inserito ad arte quasi unicamente per farlo morire di lì a poco con effetto a dir poco tragico e struggente. È questo eccesso di lealismo patriottico, di ricerca del patetico, forse dovuto alla sceneggiatura ispirata a rielaborare il Post Mortem di Andrzej Mularski, forse al tentativo di ottenere il maggior effetto scenico possibile, ad appesantire eccessivamente l’opera, conferendo ai drammi individuali inquadrati dall’autore una tensione insopportabile e irreale.

Ne consegue un effetto di pesantezza che si scioglie solo quando il regista si lascia andare ad artifici puramente estetici (la visione dall’alto che va ad abbracciare il folto numero degli ufficiali, sempre ripresi simbolicamente in un unico gruppo coeso), o a riprese ai limiti del documentario più crudo, come nel devastante finale in cui trova finalmente sfogo tutta l’amarezza dell’autore e dei polacchi tutti, sciogliendosi nell’orribile e spietata verità. La freddezza con cui viene narrato l’eccidio è qualcosa di tremendo, stavolta sì, specie per la sua totale mancanza di umanità, artifizio retorico e intimo sentimento.

Il protagonista fin lì rimasto sullo sfondo della narrazione viene sballottato senza nessun riguardo assieme agli altri prigionieri, assumendo lo status di “macchina” in quella che appare un’operazione seriale di lavoro più tipica di una coscienziosa e razionale carneficina aziendale piuttosto che una selvaggia barbarie. Un’istituzione industriale della strage che anticipa lo sterminio nazista degli ebrei. Wajda qui non risparmia nulla, proprio nulla allo spettatore. E così facendo raggiunge uno dei livelli più alti di rappresentatività reale dell’orrore umano. Roba da far impallidire perfino lo Spielberg di Schindler’s list.

V Voti

Voto degli utenti: 6,5/10 in media su 2 voti.
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