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8/10

Per un figlio regia di Suranga D. Katugampala

Drammatico
recensione di Leda Mariani

Siamo in una qualunque provincia del nord Italia. Sunita, una donna srilankese di mezza età, divide le sue giornate tra il lavoro di badante, ed un figlio adolescente. Fra loro regna un silenzio intriso di tensioni, in una relazione segnata da conflitti. Essendo cresciuto in Italia, il figlio fa esperienza di un’ibridazione culturale difficile da capire per la madre, impegnata a lottare per sopravvivere in un paese al quale non vuole in fondo appartenere.

Un processo di integrazione omologante che è necessario avviare in Europa, raccontato in un film assolutamente italiano.

Molte donne srilankesi lasciano la famiglia e i figli per andare all’estero. I primi flussi migratori dallo Sri Lanka verso l’Europa sono avvenuti intorno agli anni ’70 e verso l’Italia durante gli anni ’90. Chi parte dal proprio paese di origine affronta uno sradicamento socio-culturale molto forte, ma si trova anche davanti alla possibilità di un altro complesso inserimento. La presenza di donne ed uomini cingalesi, portatori di culture e di stili di vita diversi da quelli italiani, ha dato vita in Italia a monasteri buddhisti cingalesi e luoghi di ritrovo culturali, per non dimenticare le proprie origini. E intanto i figli nascono, o si ricongiungono alle madre, come capita a Sunnita, egregiamente interpretata da Kaushalya Fernando, una delle attrici più apprezzate in Sri Lanka, che contribuisce attivamente allo sviluppo del cinema del suo paese, e che nel 2009 ha vinto, con La terra abbandonè, la camera d’Or a Cannes.

Sunita non vuole mettere radici in Italia: è diversa dalle altre madri, parla a malapena l’italiano e tra le quattro mura di casa i suoi valori si manifestano inevitabilmente in maniera distorta, andando a creare nuove interpretazioni e visioni degli stessi. Il giovane figlio fa invece parte di una comunità di veri italiani: quelli di oggi, con i loro usi e costumi, nati e cresciuti qui. Parrebbe di dire una cosa ovvia, ma tutto intorno a noi ci dimostra che purtroppo non è esattamente così. Da notare il parallelismo tra le vicende interne, che parlano del rapporto madri/figli mettendo in parallelo l’immigrata e l’anziana “italianissima” signora, completamente ignorata dai suoi figli e che non riesce a comunicare con loro: perché tutto è cambiato, nell’arco di meno 70 anni, anche per gli italiani delle generazioni che ci precedono. In una storia che in fondo parla di un senso di irrisolvibile solitudine, e di non appartenenza: nell’età adulta, durante l’adolescenza, all’interno di una società che si fa sempre più edonistica, egoista e difficile, si specchiano i circa 30.000 srilankesi che vivono qui oggi; e la seconda generazione di immigrati in Italia, finalmente inizia a raccontarsi.

Il film è una grande opera di composizione, fortemente voluta da tutti coloro che hanno preso parte alla realizzazione, molto osteggiata a livello politico (l’ambasciata italiana in Sri Lanka non voleva ad esempio nemmeno concedere  il visto a tre tecnici, diffidando del fatto che la loro professionalità potesse essere richiesta nel Bel Paese). Invece la scelta di fondere nella troupe una componente srilankese, rappresentata dal DoP Channa Deshapriya e da tecnici ed assistenti srilankesi, con milanesi e veronesi, è riuscita a dar vita ad un film assolutamente italiano, soprattutto nella forma, che ricorda un certo neorealismo, ma anche tanti film di Mazzacurati, Soldini, o Amelio. Perché in effetti le vicende raccontate sono universali: sono le storie del mondo comune, racchiuse in un film minimalista, fatto di momenti  quotidiani, domestici, a volte ripetitivi. Un film dal taglio volutamente semplice e documentaristico, sia dal punto di vista estetico, che narrativo, costruito su un canovaccio poi sviluppato sul set, tutti assieme, vivendo e rivivendo gli eventi raccontati, come durante un grande laboratorio, che ha dato vita a qualcosa di profondamente vero. Gli elementi reali sono tanti: la casa di cura, con tutti i suoi pazienti, è vera, così come la festa srilankese a Verona, ma non bisogna dimenticare che si tratta comunque di finzione, nata dalle esperienze che il giovane regista ha sentito raccontare durante la sua vita.

Il sistema laboratoriale di gruppo, che si basa sul far trascorrere agli attori molto tempo assieme, ha dato vita ad un’atmosfera che fa emergere quasi spontaneamente gli stati emozionali. Kaushalya Fernando ha lavorato per una settimana come badante con la zia del regista, per entrare meglio nella parte, è l’effetto è davvero realistico.

Il film è stato girato in 35 giorni con il potente supporto di cittadini srilankesi, italiani e veronesi. La sua vicenda distributiva è molto interessante, perché non avrebbe mai potuto prendere vita, in Italia, senza il forte e quasi casuale interessamento di Gianluca Arcopinto, con la sua Pablo Film e con Gina Films e l’investimento, anche in termini economici, del Premio Mutti, della Cineteca di Bologna, e di Kalà Studio. Per ora la pellicola è in 30 sale e il regista ha più volte sottolineato l’intento politico del film, che mette a confronto varie forme di narratività - occidentale ed orientale -, ma soprattutto vuole portare nelle sale gli srilankesi. In Italia sembra che il cinema sia di pochi e per pochi, mentre nel resto del mondo non è così e si sviluppano varie forme di cinematografia, con un loro forte pubblico. Chiunque sia abbastanza vicino alla tematica del rapporto genitori/figli potrà comprendere questo film, indipendentemente dalla provenienza, o dal background culturale.

Le seconde generazioni di immigrati in Italia portano con loro una forma di saggezza che arriva da lontano e che costruttivamente può non abbracciare la decadenza della vecchia Europa. Quello che sperano gli autori del film è che si possa imparare, nel Bel Paese del presente, ad allargare il cerchio e ad assorbire le nuove culture, senza dimenticare la propria, dando vita a qualcosa di profondamente nuovo e di diverso. Oltre un milione di persone nate e cresciute in Italia, ancora oggi vengono percepite come stranieri: non possono accedere al servizio civile, non ottengono la cittadinanza fino al 18° anno d’età nonostante siano nati qui… La politica italiana è ancora troppo chiusa su questi temi: non accetta il problema, non lo vuole vedere, mentre la legge dovrebbe cominciare a confrontarsi con la realtà.

Julian Wijesekara è nato in Sri Lanka nel 1999 e ha raggiunto la famiglia in Italia a sette anni. Attualmente frequenta il Liceo scientifico Severi di Milano, è un ballerino di hip hop e pratica le arti marziali da 10 anni. Per un figlio è la sua prima esperienza come attore, ed è stato scelto tramite casting. Per aiutarlo in questa prima ed impegnativa esperienza, il regista ha puntato a creare un’atmosfera molto famigliare sul set, in modo da far scaturire in lui espressioni ed emozioni spontanee. Nella Pozzerle invece, che interpreta l’anziana signora, è da lungo tempo attrice dialettale nel gruppo teatrale Falìe, di Velo Veronese.

Suranga D. Katugampala è un filmmaker di origine srilankese. Arrivato in Italia da piccolo assieme alla famiglia, si è poi laureato in informatica multimediale e lavora come docente per workshop di video narrazione alla Scuola Mohole di Milano. Dopo vari cortometraggi sperimentali, nel 2013 ha realizzato una webserie intitolata Kunatu-Tempeste, progetto a zero budget in cui racconta le vicissitudini della sua comunità in Italia, usando effettivamente il cinema come strumento di comunicazione quotidiana. E non come qualcosa di esclusivo e fine a sé stesso.

Le date del tour del film:

http://www.perunfiglio.it/proiezioni.php

Qualche immagine dal Set:

http://www.perunfiglio.it/gallery_new.php

http://www.perunfiglio.it

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