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7/10

The Messenger regia di Oren Moverman

Drammatico
recensione di Alessandro Pascale

Il giovane sergente Will Montgomery è da poco tornato dall'Iraq, esperienza che lo ha profondamente segnato nell'anima. Egli viene affiancato al capitano Tony Stone, un veterano duro e cinico, con il quale viene assegnato al Casualty Notification Officer. I due hanno il delicato compito di informare i parenti dei soldati caduti in guerra, Will e Tony con il tempo imparano a fronteggiare le diverse reazioni dei parenti delle vittime, imparando a rimanere il più distaccati possibile. Un giorno bussano alla porta della neo-vedova Olivia Pitterson, per informarla della morte del marito, Will rimane molto colpito dalla donna fino a farsi trascinare nel suo dolore e successivamente intrecciare una relazione con lei, ritrovandosi a fronteggiare un forte dilemma etico.

Che The Messenger abbia un ovvio valore politico di protesta pacifista è una cosa tanto scontata quanto resa evidente dal premio (Peace Film Award) ricevuto al 59° festival di Berlino. In realtà l’opera più che far parte al filone di film crudi e documentaristici come Redacted o Jarhead si avvicina molto a ricerche psico-sociologiche sul dolore. In quest’ottica il parallelo più immediato che viene da fare è con l’analisi sofferta condotta qualche anno fa ne La stanza del figlio da Nanni Moretti.

Quale la capacità di una macchina da presa di catturare un reale e genuino sentimento di sofferenza senza sembrare forzato, artificioso, patetico o ripetuto? Quale il significato di una vita umana stroncata dalla guerra, con tutte le tragiche conseguenze familiari che un simile lutto si porta dietro? Oren Moverman, al suo esordio alla regia dopo una decennale attività da sceneggiatore (tra cui il contributo per il magistrale Io non sono qui di Todd Haynes), conosce la vita militare, avendo servito il proprio paese (Israele) per ben quattro anni, e ha visto quali sono gli orrori e le destabilizzazioni emotive provocate dal contatto quotidiano di un popolo con la tragedia di una guerra.

Questa sua esperienza personale è servita per creare una serie di scene drammaticamente sublimi, in cui con incredibile realismo è riuscito a catturare in memorabili riprese fatti di accasciamenti, reazioni rabbiose, volti tumefatti e urla angosciose la sordida violenza psicologica che segue ogni giorno la violenza bellica “invisibile” e distante decine di migliaia di chilometri.

Questa è la grandezza del film e ne è senz’altro il merito più alto, ma Moverman va oltre, cercando di approfondire anche la condizione interiore dei cosiddetti “angeli della morte”, i militari incaricati di portare la triste novella ai familiari delle vittime. Personaggi che la burocrazia e le regole vorrebbero dotati di una solida facciata impermeabile ad ogni tipo di reazione dei destinatari dei messaggi, ma che in realtà mostrano un lato umano sofferente ed instabile, riuscendo soltanto con grande fatica a svolgere il proprio duro compito. Sia che abbiano combattuto in guerra (il sergente Will Montgomery, alias Ben Foster) sia che non abbiano avuto tale “privilegio” (il capitano Tony Stone, ossia Woody Harrelson) l’accumularsi di episodi di tal fatta è un trauma insormontabile che si ripercuote anche nel complesso rapporto tra i due soldati, che sfocia in un’amicizia fatta di condivisione di segreti, problemi, ricordi e lavoro.

In mezzo il rapporto complicato con il gentil sesso, trattato in maniera occasionale e superficiale da uno (Tony), lasciato in sospeso dall’altro (Will) che in cerca di un’ancora di salvataggio cercherà rifugio nell’accoglienza della fresca vedova Olivia Pitterson (Samantha Morton). Un’eccellente fotografia e una buona capacità di alternanza tra camere a mano e riprese fisse sono altri fattori forti di Moverman, che non riesce però a sviluppare appieno alcuni tempi morti del film, mancando l’appuntamento nella piena realizzazione del nesso tra ribellione umanistica verso il freddo e statico mondo dell’esercito e il malessere esistenziale di cui sono pervasi i protagonisti.

Discontinue anche le capacità attoriali del cast: nota di merito per Woody Harrelson, che dopo Zombieland si conferma personaggio carismatico in grado di riempire la scena; non altrettanto si può dire dello statico Ben Foster e della pressochè totale immutabilità di Samantha Morton, che sembra ripetere pari pari la serie di piatte espressioni già viste in Control.

Ps: Il film è stato scandalosamente tradotto in "Oltre le regole". Ci siamo rifiutati di trattarlo come tale e abbiamo preferito tenerne il titolo originale. C'è un limite a tutto.

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