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7/10

L'Altra Verita  regia di Ken Loach

Drammatico
recensione di Fulvia Massimi

Liverpool, 2007. Frankie e Fergus sono come fratelli, fin da bambini hanno condiviso tutto: donne, amicizie, esperienze. Quando Frankie rimane vittima di un’imboscata sulla Route Irish di Baghdad Fergus inizia ad indagare, aiutato dalla vedova Rachel. La sete di vendetta che lo anima rischierà di allontanarlo dalla verità.

Le atmosfere da fiaba contemporanea della delicata commedia calcistica Il mio amico Eric sono ormai un lontano ricordo per Ken Loach che con L'Altra Verità (ma il titolo originale, Route Irish, si riferisce alla “strada più pericolosa del mondo”) torna al cinema impegnato (e impegnativo) che da sempre lo contraddistingue.

Arrivato nelle sale italiane a quasi un anno dalla sua presentazione (fuori concorso) a Cannes 2010, il revenge thriller anti-bellicista firmato dal fedelissimo Paul Laverty (con Loach da La Canzone di Carla) si propone di esplorare la dimensione hobbesiana di una guerra che permea di sé gli strati nascosti della società “civile” (nel senso militare del termine), dove uomini assuefatti allo stato di natura (marziale) si nutrono di violenza e ne generano a loro volta.

La coppia o il triangolo sono cifre attorno alle quali il cinema di Loach si articola spesso, nel costante desiderio di andare a fondo dei rapporti sociali quanto di quelli inter-personali, e la storia raccontata da L’Altra Verità è in fondo quella di un’amicizia incrollabile, un amore umano, fraterno, tra due uomini che non hanno mai saputo vivere separati. E che non sapranno farlo fino alla (loro) fine.

Che si tratti di (dis)integrazione razziale (Un Bacio Appassionato) , denuncia storica (Il vento che accarezza l’erba) o sociale, Ken Loach non perde di vista l’obiettivo “ideologico” del proprio credo cinematografico: fare della storia del singolo il vettore di una riflessione di portata universale e proprio per questo maggiormente esposta ai rischi della facile retorica. Ma con L’Altra Verità il regista britannico Palma d’oro a Cannes 2006 non si rassegna alle conclusioni naïf di una critica superficiale, deciso ad andare oltre la pura e semplice condanna morale di un conflitto sbagliato e non necessario.

“Niente sangue, niente peccato”: i suoi mercenari, che si prostituiscono per migliaia di dollari e perseguono la regola del “mors tua vita mea” con osservanza morbosa, non trovano posto nella società, siano essi innocenti o colpevoli: il confine tra gli “eroi dimenticati” e gli invasati affetti da delirio di onnipotenza è estremamente labile. Che la guerra sia un’infezione incurabile, costantemente impegnata a corrodere il senso di realtà di chi l’ha sperimentata, non è certo un tema nuovo se sia Scorsese che Coppola ne hanno ricavato capolavori di culto quasi quarant’anni fa. Eppure, nelle mani giuste, non perde mai la propria attualità.

I traduttori italiani scelgono di conservare nel titolo il dilemma ontolgico che sta alla base della pellicola e, per una volta, il risultato non è così disastroso.  “Non troverai mai la verità se non sei disposto ad accettare anche ciò che non ti aspettavi” potrebbe essere la tag-line eraclitea che il personaggio di Fergus, nella sua cieca convinzione, incarna pienamente. Filmati di repertorio si mescolano a quelli cinematografici, generando un “effetto Zapruder” che impedisce allo spettatore di discernere verità e finzione, realtà e rappresentazione, e l’ambiguità del titolo italiano trova giustificazione nel lavoro di Paul Laverty, impegnato a non esaurire prima del tempo la carica tensiva del proprio script.

Lontano dalle logiche commerciali quanto da quelle autoriali (ma non per questo “inesistente”, come sostenuto dai detrattori della contemporanea cinematografia britannica), il cinema ruvido di Ken Loach usa lo schermo per raccontare la vita, piegando l’estetica della forma visiva al realismo della narrazione. Cinema di contenuto più che di stile, teso ad indagare, scarnificare, sviscerare le possibili diramazioni dell’esistenza sociale, preferisce non concedersi finali lieti e superflui. E se sceglie la commedia (è il caso de Il mio amico Eric) lo fa per ridare fiato ad uno spettatore che ne viene spesso privato, soffocato dalla vivida brutalità delle sue pellicole. Una brutalità che, in L’Altra Verità, torna a farsi sentire con (pre)potenza.

 

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