R Recensione

6/10

Il figlio di Saul regia di Laszlo Nemes

Drammatico
recensione di Pasquale D'Aiello

Un prigioniero del campo di concentramento di Auschwitz crede di riconoscere suo figlio tra le vittime delle camere a gas del campo e desidera concedergli una degna sepoltura ma questo lo mette in contrasto con il tentativo di fuga che i suoi compagni stanno organizzando.

Siamo nel 1944, nel campo di concentramento di Auschwitz. Guardiamo la storia con gli occhi del protagonista, Saul, un ebreo membro del sonderkommando. Il sonderkommando era il gruppo di prigionieri addetto ad accompagnare gli altri prigionieri alle camere a gas, senza che sospettassero del loro destino, e successivamente raccoglierne gli oggetti preziosi. In cambio di questa funzione, che li vedeva affiancare gli sterminatori nazisti, ricevevano le briciole di un trattamento leggermente migliore rispetto agli altri prigionieri. Ma anche per loro il destino era segnato, periodicamente venivano eliminati per cancellare le testimonianze del crimine nazista. Il primo tema che il regista affronta è quello della raccontabilità che è intimamente connesso a quello della memoria. Quando il cinema ha dovuto raccontare dei campi di sterminio nazisti si è posta la questione della raffigurazione di ciò che appariva non raffigurabile, dell'orrore assoluto e della morte per sterminio di massa. Quando Alain Resnais realizzò il suo film documentario sui campi di concentramento, Notte e nebbia (1955), si pose innanzitutto la questione della credibilità, era fondamentale che le immagini apparissero veridiche; esistevano già tesi negazioniste e occorreva utilizzare le immagini come prove di quanto realmente avvenne. Per avvicinarsi al suo intento Resnais ritenne utile operare sulla pellicola il minor numero possibile di tagli, affidando al piano sequenza il compito di raccontare la verità, con questo sottintendendo che solo lo statuto dell'immagine documentaria, il meno trattata possibile, possedeva la capacità di raccontare quell'evento. Altra questione sollevata in questo ambito è la raffigurazione della morte, celebre la polemica che vide Jacques Rivette (anche sulla scorta di precedenti riflessioni di Godard), sui Cahiers du Cinema, accusare di immoralità Gillo Pontecorvo per il suo carrello che in Kapò (1960) raffigurava la morte di una prigioniera in un campo di concentramento, enfatizzando e sottolineando ciò che per sua natura non sarebbe stato neppure rappresentabile. Rivette arrivò ad accusare Pontecorvo persino del delitto di aver ricostruito il set del campo di concentramento poiché quell'orrore non è ricostruibile attraverso la finzione. Pur non arrivando ad accogliere in pieno la lezione di Rivette, Nemes se ne mantiene molto vicino operando alcune scelte estreme. Nemes gira quasi tutto il suo film con una cortissima profondità di campo che esclude quasi del tutto la scena collettiva, storica e politica in cui è ambientato il film. Nelle scene di morte i corpi sono quasi soltanto ombre, di cui scorgiamo brandelli, ne intuiamo il senso perché già conosciamo la storia. Inoltre gira in pellicola e in 4:3, con una fotografia contrastata, cupa, densa, con inquadrature che stanno continuamente addosso al protagonista. Il risultato complessivo di queste scelte costruisce uno stile pensato e attento che affronta con consapevolezza il tema della rappresentazione dello sterminio di massa. L'importanza di queste riflessioni si coglie in pieno e drammaticamente quando vediamo i prigionieri del campo di concentramento che rischiano la loro vita per scattare alcune fotografie affinché il mondo sappia e creda a quell'indicibile orrore. Anche la sceneggiatura risente di scelte drastiche, si sceglie di non seguire il classico schema in tre atti, non si cerca metodicamente il climax e quando questo arriva, si fa di tutto per non concedere emozioni o speranze. Lo stesso accade con la recitazione, tutta giocata sulla sottrazione. Le conseguenze di queste scelte provocano alcune difficoltà al dispiegamento delle scene che faticano a mettere il protagonista al centro dell'azione, ricorrendo ad artifici narrativi che appaiono poco giustificati. Le conseguenze sulla fruizione della pellicola evidenziano una distanza rispetto allo spettatore che non partecipa alla narrazione ma la subisce senza esserne stato coinvolto. Sebbene rispetto al 1945 il mondo abbia proseguito la sua corsa verso l'orrore e ciò che sembrava un abisso non immaginabile, non ripetibile, si è ripetuto, facendo invecchiare alcune riflessioni dogmatiche ed iper-ideologiche, resta attuale ed apprezzabile, sebbene con esiti non compiuti, la riflessione sullo statuto dell'immagine e sul ruolo del cinema che il giovane regista compie con questa sua opera prima.

V Voti

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alexmn 9/10

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