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7/10

Il Selvaggio regia di Laszlo Benedek

Drammatico
recensione di Gloria Paparella

Il film racconta la vita di strada di una banda di motociclisti e del loro capo ingiustamente coinvolto nella morte di un uomo.

Nel fine settimana del luglio del 1947 arrivarono 4000 motociclisti nella città di Hollister, California, e la distrussero; furono fatte una serie di fotografie dell’incidente che poi apparvero sul magazine Life e dalle quali nacque il racconto di Frank Rooney intitolato The Cyclist Raid. Il produttore Stanley Kramer ne acquistò i diritti per farne una versione cinematografica, affidando la storia a László Benedek per dirigerla.

Il valore de Il selvaggio consiste nel suo carattere intrinsecamente realistico, poiché tratta il problema della crescente violenza nella società americana ad inizio anni Cinquanta, scatenata dalle pressioni che i giovani subivano e a cui volevano ribellarsi, anche a costo di rischiare la vita.

Per impersonare Johnny, il capo della banda, venne scelto il più ardente attore di Hollywood, Marlon Brando, il quale rimase affascinato dal significato sociale del copione e dal contrasto tra quel film e Giulio Cesare, che stava per iniziare a girare nello stesso periodo. In effetti Johnny è un personaggio controverso, che incute paura ma allo stesso tempo affascina lo spettatore per la sua strafottenza mista di romanticismo. Il ribelle si innamora anche di una giovane barista, Kathie (Mary Murphy), figlia dello sceriffo e unica testimone in grado di poterlo difendere dall’accusa di aver ucciso un uomo nella baraonda finale.

Anche se inizialmente il film doveva essere girato proprio a Hollister, la Columbia insistette perché si filmasse negli studi e la sceneggiatura di Ben Maddox dovette essere rivisitata per i numerosi tagli da parte della censura, la quale sosteneva che il copione rappresentava con simpatia le gang di motociclisti e spingesse alla violenza. Il testo fu dunque riscritto e Marlon Brando commentò l’introduzione al film (sebbene fosse contrario) volto a sottolineare che si trattava di un episodio assolutamente casuale che non avrebbe potuto ripetersi mai più.

L’attore è pienamente nel ruolo e sembra veramente appartenere a una di quelle bande di delinquenti: è una parte ancora più aggressiva rispetto a quella di Stanley Kowalski de Un tram che si chiama desiderio, poiché si tratta di un motociclista turbolento e violento ma non colpevole per la morte di un uomo. Per meglio interpretare il personaggio, Brando si incontrò con veri motociclisti, ascoltando il loro slang e interrogandoli sulle loro storie e il loro passato. Il disagio nei confronti della rigidità di alcuni dialoghi del copione lo portò ad improvvisare alcune scene, ad esempio quella importante dell’incontro tra Johnny e Kathie nel caffè locale: le battute improvvisate su due piedi da Brando sono piene di slang da motociclisti, tese, vere, e la spontaneità delle reazioni della ragazza, a volte nervosa e a volte attratta, è realistica.

Nonostante le misure restrittive del tempo (il film fu vietato ai minori di 14 anni in Gran Bretagna) e i guadagni mediocri al botteghino, Il selvaggio ebbe un’importanza fondamentale nella storiografia cinematografica americana per i suoi contenuti come documento sociale e fu il primo film a rappresentare la frustrazione giovanile in maniera così penetrante da avere un’influenza profonda e duratura: un’intera generazione di giovani si ispirò al personaggio di Brando, non solo nel modo di vestire (giacca di pelle, occhiali scuri e basette) ma anche nel comportamento, manifestando insofferenza nei confronti delle regole e adottando il linguaggio del film.

Sostenuto dalla stupefacente interpretazione di Marlon Brando, Il selvaggio non indica direttamente le fonte dei problemi, anzi procede per sottintesi, ma insegna una sonora lezione: il caos nasce quando la legge inizia a vacillare anche solo per un istante davanti al teppismo organizzato.

 

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