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8/10

Un altro me regia di Claudio Casazza

Documentario
recensione di Leda Mariani

Un anno nel carcere di Bollate con un gruppo di ‘sex offenders’ e con gli psicologi dell’Unità di Trattamento intensificato del CIPM, primo esperimento in Italia di prevenzione della recidiva per reati sessuali. Un altro me avvicina i carcerati con discrezione, conoscendoli poco a poco e mantenendo una sensibile distanza dal loro mondo disturbato, che trova espressione visiva nel permanente ‘fuori fuoco’ che li avvolge e che finisce per diventare un velo protettivo sia per loro che per lo spettatore. Lo sguardo va però a fondo e si inoltra all’interno di colloqui di gruppo, laboratori creativi e testimonianze singole, fino alle riunioni a porte chiuse degli psicologi: si scoprono le premesse profonde che hanno mosso le azioni di questi uomini, la narrazione interna che li ha sostenuti e giustificati, gli alibi culturali che hanno permesso loro di esercitare la violenza. Sergio, Gianni, Giuseppe, Valentino, Carlo, Enrique, sono tra i condannati per reati sessuali, definiti ‘infami’ nel gergo carcerario, che una volta usciti dopo anni o mesi di isolamento in carcere, rischiano di commettere nuovamente lo stesso crimine. Un’equipe di psicologi, criminologi e terapeuti sta portando avanti anche con loro il primo esperimento in Italia per evitare il rischio che le violenze siano compiute ancora, imparando a comprendere chi sono, cosa pensano e quali sono le dinamiche profonde di chi ha commesso un reato sessuale, arrivando a mostrare che il cambiamento, talvolta, è possibile.

Un film di estremo tatto, che racconta il primo esperimento di trattamento contro il reato di violenza sessuale

Il 13 aprile uscirà in tutte le sale italiane che avranno scelto di proiettarlo, e soprattutto a Milano, “Un altro me”, ultimo importante lavoro del giovane regista milanese Claudio Casazza. Il film, che ha vinto il Premio del Pubblico al 57° Festival dei Popoli e il Primo Premio al Mese del Documentario 2017, oltre che al Festival dei Popoli di Firenze, è un viaggio nel Carcere di Bollate e nei vissuti dei condannati per violenze sessuali. In quasi un anno di ingressi all’interno del carcere a seguito dell'Unità di Trattamento Intensificato del team di criminologi guidato da Paolo Giulini, Casazza ha avuto modo di vivere, assieme ai carcerati, un progetto sperimentale di analisi dei colpevoli di reati sessuali, i cosiddetti “sex offenders”, sui quali i terapeuti lavorano per ridurre la possibilità che i detenuti, una volta scontata la propria pena, tornino a commettere lo stesso tipo di reato.

Il film, prodotto da Graffiti Doc con il sostegno del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, del Piemonte Doc Film Fund, e distribuito da Lab 80 film di Bergamo, è un viaggio negli spazi fisici e nelle dinamiche mentali in cui vivono i detenuti protagonisti: tra loro Sergio, Gianni, Giuseppe, Valentino ed Enrique. Tutti hanno esercitato violenza contro una donna e sono stati riconosciuti colpevoli. Cosa pensano del proprio reato? Quali sono gli alibi culturali con cui provano a spiegarlo? Come si deresponsabilizzano e come immaginano di comportarsi una volta usciti dal carcere? I detenuti si sono raccontati aprendosi totalmente, ed il team di Giulini li ha guidati ed ascoltati, confrontandosi con le loro naturali resistenze.

Casazza ha girato con una troupe ridotta al minimo, anche per questioni di accessibilità all’interno del carcere. Con una Canon 5D e l’aiuto del fonico, Alessio Fornasiero, ha ripreso in maniera il più possibile neutra e discreta quasi tutto degli incontri che si sono svolti durante l’anno, riuscendo volutamente a <<mantenersi su un terreno equidistante tra gli autori dei reati e l’istituzione che li cura>> e ponendosi <<virtualmente al centro tra gli uni e gli altri, rendendo il film un territorio aperto in cui affrontare la discussione senza timori o vergogna, e portando in primo piano dubbi, certezze e l’individuale esperienza di vita degli utenti coinvolti nel progetto>>. Un anno trascorso in osservazione dei detenuti, per capire chi sono, cosa pensano e quali sono le dinamiche profonde di chi commette reati sessuali, rendendo evidente che talvolta, con il giusto aiuto, il cambiamento è possibile.

Quello condotto da Giulini è un importante modello clinico-criminologico appoggiato dal CIPM (Centro Italiano per la Promozione della Mediazione), sviluppato in equipe con psicologi, criminologi e terapeuti. Il sostegno psicotraumatologico alle vittime di reato, da ambo le parti (agente e vittima), che si sta sperimentando all’interno del carcere di Bollate, <<è un progetto all’avanguardia che potrebbe davvero fare la differenza nel dare senso alla pena, in modo da rendere il recupero funzionale, trasformando i colpevoli di violenza in persone migliori, ed innocue>>. Il Servizio affronta le situazioni conflittuali in una prospettiva integrata multidisciplinare (nonché di rete e comunitaria), centrandosi sulla consapevolezza di articolare, di fronte a condotte lesive ripetibili e ripetute, ambiti trattamentali-terapeutici accanto a quelli securitari.

Casazza ha deciso di girate questo documentario discreto tanto quanto netto, dopo aver assistito ad un incontro aperto tra i condannati e gli operatori che fanno parte del progetto, ed aver percepito, da entrambe le parti, l’importanza delle questioni che si trovava di fronte. Ha scelto di non sapere che tipo di reati avessero commesso i detenuti, in modo da restare il più possibile aperto e libero da pregiudizi e pur non potendo evitare di trattare realtà dure e dolorose, ha voluto togliere qualsiasi dettaglio che potesse apparire voyeuristico, per costruire un territorio aperto nel quale ciascuno possa riflettere su un reato che sebbene sembri sotto gli occhi di tutti, rimane per lo più sommerso, taciuto e troppo poco compreso.

L’aspetto più complesso del documentario, ma anche elaborato molto bene, è il rapporto di equilibrio tra gli autori di reati sessuali e l’istituzione che li tratta ponendo l’autore virtualmente “al centro della stanza”. Ne emergono il tema della fiducia, che permette di mettersi in discussione, degli stereotipi su di sé e sulla realtà e l’eterna questione della relazione con l’altro da sé, oltre che la consapevolezza nei confronti del proprio reato e del danno fatto alle vittime, cosciente o meno. Molto toccante anche l’intervento, nell’ambito del gruppo di discussione, di una vittima di violenza sessuale, con alle spalle una storia agghiacciante: dapprima rifiutata dal gruppo, riesce invece poi, con la sua testimonianza e il senso di pace e di risoluzione che trasmette, a scatenare reazioni di empatia in diversi dei soggetti.

Pur essendo girato interamente all’interno del Carcere di Bollate, a parte i dettagli quasi fotografici che si alternano alle testimonianze raccolte, non emergono aspetti che possano denotare il film come “carcerario”, concentrando invece l’attenzione sull’universo umano e sull’evolversi della narrazione. Si resta come in una dimensione sospesa e rarefatta, oltre che raffinata, che sposta totalmente e spontaneamente l’attenzione sulla parola e sulla testimonianza di vita.

Il film è molto interessante anche dal punto di vista visivo: rispetto alla percezione del pubblico, Casazza ha osato moltissimo, alternando lunghi momenti di fuori fuoco, rivolto verso i condannati, ad inquadrature nette, nitide, e dal taglio molto particolare, che riprendono invece gli operatori del progetto. Il fuori fuoco non disturba, ma risulta anzi molto elegante e ben bilanciato a livello di colore e luminosità, rivelandosi la scelta più adatta a trasmettere quel senso di “lontananza” che i detenuti provano nei confronti di sé stessi, e molto spesso anche verso il reato che hanno commesso, come se non gli appartenesse, come se a mettere in atto quelle atrocità, fosse salto un altro.

Non c’è niente di banale in questo film: nulla di retorico, di slavato, o esagerato. È un lavoro in perfetto equilibrio, che affronta con coscienza, consapevolezza e tatto, tutta una serie di discorsi che socialmente abbiamo il dovere di approfondire, soprattutto in una società che cerca di scardinare vecchi stereotipi e percezioni alterate della realtà, dell’umanità e della sessualità.

Per scoprire dove sarà possibile vedere il film a Milano, guarda alla pagina: www.lab80.it/unaltrome

Il film sarà al Cinema Beltrade dal 14 al 19 aprile 2017

Intervista a Claudio Casazza

Com’è nata l’idea del film?

Sono stato invitato da Paolo Giulini, il criminologo ideatore del progetto, ad un appuntamento di fine anno aperto al pubblico all’interno del carcere di Bollate, sul modo in cui viene affrontato, a livello sociale, il reato di violenza sessuale. In quell’occasione ho potuto rendermi conto dell’universo che queste carceri rappresentano, e di come Bollate si distingua per i progetti che mette in moto e per il suo incessante lavoro nel recupero dei carcerati, oltre che nella sua funzione contenitiva e punitiva. Mi colpì molto il conflitto che si scatenava continuamente tra detenuti e carcerieri, in quel momento in aperto dialogo, al di là delle reciproche posizioni. La materia era infuocata, e alla fine dell’assemblea restò qualcosa di “ non concluso”. Decisi dunque, poco dopo, di progettare un documentario su questo Trattamento Intensificato che si stava sperimentando per la prima volta a Bollate e proposi il progetto ad Enrica Capra e alla GraffitiDoc.

Come si sono svolte le riprese?

Io e il fonico, Alessio Fornasiero, siamo andati avanti e indietro dal carcere per quasi un anno, ed abbiamo assistito a tutti gli incontri previsti dal Trattamento Intensificato. Abbiamo accumulato circa 200 ore di materiale in digitale, su una cinquantina di giorni di riprese effettuate con una Canon 5D, e poi è partito un lungo e complesso lavoro di post produzione, durato quasi 4 mesi, che ha dato forma definitiva al documentario. Si è trattato, per me, di un vero e proprio processo conoscitivo: non sapevo esattamente quali fossero i reati dei carcerati coinvolti nel progetto e così si è creato, gradualmente, un reciproco rapporto di fiducia, scevro da qualunque pregiudizio. L’attrezzatura leggera ha contribuito a non interferire troppo, come presenza, in fase laboratoriale: una produzione più grossa non sarebbe probabilmente riuscita a creare un simile clima di confidenza e di intimità.

Qual è stato il percorso che hai potuto osservare nei condannati?

Man mano gli uomini che avevamo di fronte cominciavano a prendere coscienza di ciò che avevano fatto… a percepire in qualche modo la colpa. Ognuno ha sviluppato il suo personale percorso di consapevolezza, chi più chi meno, in un territorio aperto, ma dal mio punto di vista questo tipo di trattamento può davvero essere una via di cambiamento e di rinascita, individuale, ma soprattutto collettiva, allo scopo di rieducare le persone alla relazione con l’altro da sé. Il percorso è criminologico-psicologico e non riguarda solo il carcerato, ma anche la vittima della sua violenza e le famiglie coinvolte, in un’ottica davvero estesa e lungimirante. Alcuni uomini li ho trovati personalmente incomprensibili, altri invece hanno completamente abbattuto le loro difese e si sono aperti, chiarendo tante dinamiche e vicissitudini che li hanno portati all’atto finale. Molti dei punti di vista dei carcerati sono specchio di una visione maschilistica e maschile della società: tanti di loro si difendono ritenendosi “provocati” da vari atteggiamenti femminili, rendendo palese quanto sia fondamentale l’educazione sociale della cittadinanza, per evitare che si arrivi a simili atrocità. Pur non potendo evitare di trattare realtà dolorose, ho voluto togliere qualsiasi dettaglio voyeuristico, per costruire un territorio aperto nel quale ciascuno possa riflettere su un reato che sebbene sembri sotto gli occhi di tutti, rimane per lo più sommerso e troppo poco compreso.

Come riassumeresti il messaggio complessivo del film?

Dal mio punto di vista il documentario dovrebbe trasmettere l’idea che la perfezione non esiste, da nessuna parte. Che siamo tutti uomini, che possiamo sbagliare, e che è giusto pagare, ma anche cercare di porre rimedio, per quel che si può. Mi rendo conto che anche il mio punto di vista possa essere “troppo maschile”… Probabilmente molte donne che vedranno il film si sentiranno molto più toccate dalle vicende riportate di quanto potrei comprendere fino in fondo io… Quello di violenza sessuale è un reato molto particolare: molto spesso non si giunge subito al crimine, ma un insieme di situazioni trascinano fino all’esasperazione finale. Il carcere può e deve essere anche un luogo di ricostruzione dell’identità: di una nuova identità, frutto della società stessa, come quella che ha portato alla violenza. Le mostruosità umane spesso non vengono dal nulla, ma sono frutto della nostra realtà. Il film è un dialogo tra detenuti e carcerieri, ed allo stesso tempo con lo spettatore, ed è fondamentalmente un invito a riflettere sul concetto di pregiudizio e sulle forme che assume nelle nostre società.

Dichiarazione di Paolo Giulini, Presidente del Cipm e dell’Unità di Trattamento Intensificato per Autori di Reato Sessuale

L’interesse per il trattamento degli aggressori sessuali nasce dal fatto che le violenze sessuali rappresentano un problema grave per la nostra società, che genera esiti distruttivi nelle menti e sui corpi delle vittime e delle loro famiglie. La pena detentiva per gli autori di reati sessuali si è dimostrata inadeguata e insufficiente come unica forma di tutela e risarcimento nei confronti delle vittime e della società in generale. Il nostro progetto è una sfida tesa a dimostrare che un approccio scientifico e sistematico di riabilitazione, è un modo etico ed efficace di proteggere la collettività, ridurre le vittime e prevenire i comportamenti devianti. Ad oggi, dei 248 uomini seguiti, solo 7 hanno compiuto nuovamente un reato.

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