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5/10

Biagio regia di Pasquale Scimeca

Docu-fiction
recensione di Alessandro Giovannini

Storia vera di Biagio Conte, palermitano di ricca famiglia che negli anni '80 abbandona tutto per vivere da eremita prima e da pastore poi sulle montagne, e che affascinato dalla figura di San Francesco decide di mettersi al servizio di poveri ed emarginati dalla società metropolitana.

Ennesimo rappresentante del filone del documentario contemporaneo, che mischia fiction a realtà, in un genere ibrido che contraddistingue alcuni degli esperimenti più interessanti degli ultimi anni, come i lavori di Joshua Oppenheimer, Rithy Panh, Miguel Gomes ed ovviamente l'italiano Francesco Rosi col suo Sacro Gra. Con questo Biagio siamo però dalle parti di un cinema molto piccolo, di "fiction" ma con quasi un solo attore in scena per buona parte del tempo.

Figura ambigua, come tutti gli auto-esuli, apprezzabile e/o detestabile come il protagonista di Into the Wild ma migliore di quest'ultimo poichè qui vi è un ritorno al mondo e non un tentativo di fuga da esso, Biagio è un moderno San Francesco la cui storia merita di essere raccontata. Il problema del film non è l'argomento - di perfetto impegno civile ed encomiabile attenzione ai drammi sociali - bensì il modo. Quel modo da "cinema della realtà" che fa della pochezza della messinscena un vanto autoriale, nella rinuncia ad ogni vezzo tecnico una cifra stilistica. Così la camera dev'essere a mano o comunque tendenzialmente instabile, perchè deve identificarsi nel suo protagonista. E lo spettatore deve patire decine e decine di minuti di vagabondaggio del protagonista nei boschi a parlare da solo col suo Dio, o insostenibili scene a camera fissa in cui un Biagio abbarbicato fra un muschio e una roccia legge ad alta voce un libro, e diciamolo: cosa c'è di più noioso al cinema del vedere una persona che legge ad alta voce? E' un qualcosa che ammazza la macchina cinema, che impone una insostenibile staticità che non è contemplativa, per esempio, di un profilmico sapientemente inquadrato che abbaglia con la potenza della sua immagine; è invece un sacrificare la visione in favore della parola, insomma il concretizzarsi di tutte le paure di quei critici ed autori che all'avvento del sonoro gridarono allo scandalo nel timore che la potenza dell'immagine, ovvero il quid del cinema rispetto alle arti scritturali, potesse venire subordinato alla parola perdendo così la sua specificità.

Biagio è in gran parte così, un'ammissione di incapacità registica di far passare il suo messaggio in primis attraverso le immagini; perciò, come già accennato, Scimeca non trova meglio da fare che mettere in scena insostenibili monologhi interiori di Biagio che chiede al suo Dio di ascoltarlo, di non abbandonarlo, eccetera, magari con la macchina da presa che lo marca a uomo: nulla di più fastidioso, calustrofobico, asfissiante. Non bastano insomma le buone intenzioni per fare un film, serve un'idea di cinema che mi spiace non aver visto nell'opera di Scimeca, il quale tra l'altro è un documentarista con una certa carriera alle spalle quindi dovrebbe sapere queste cose; forse è stata proprio la scelta di non girare un classico documentario ma una docu-fiction biografica l'errore fondamentale: avrebbe evitato l'onere di dover mostrare anche quando non c'è niente da vedere.

Se il film a tratti offre qualche guizzo si deve solo all'intensa interpretazione di Marcello Mazzarella, che riesce, malgrado l'impianto complessivo, a superare questi difetti ed arrivare allo spettatore. Non riesce da solo a salvare il film, ma sicuramente è ciò che lo salva dal baratro.

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