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5/10

Luci d Inverno regia di Ingmar Bergman

Drammatico
recensione di Alessandro Pascale

Un pastore in crisi religiosa, una donna che l'ama senza essere corrisposta e un uomo che, ossessionato dall'idea che i cinesi abbiano la bomba atomica, non trova più motivi per vivere. Cronaca di una giornata tragica per un manipolo di personaggi che sembrano aver smarrito la verità assoluta. 

 

"Se riuscissimo ad essere sicuri... se riuscissimo a credere in una verità... se riuscissimo a credere..."

Luci d’Inverno è il secondo film di una trilogia realizzata da Bergman sul tema della religione. Segue il capolavoro Come in uno specchio e anticipa lo “scandaloso” Il Silenzio. Stretto nella morsa tra due lavori così ingombranti Luci d’inverno è senz’altro il lavoro minore dei tre, non solo per la maniera di affrontare la questione ma per la struttura registica stessa, decisamente non ai livelli eccelsi cui il regista svedese ha abituato nella sua pur vasta filmografia.

  Già in sé la tematica non è certo una passeggiata di piacere, ma quello che manca in Luci d’inverno sono il ritmo e la dinamicità. La classicità ed un tipo di regia essenziale (tutta devota a camere fisse, primi piani, preferenza per uno stile teatrale con ambienti chiusi, assenza di virtuosismi eccessivi) sono sempre stati un marchio di fabbrica di Bergman, è vero, ma l’impressione è che qui si esageri, appesantendo la struttura con scelte senz’altro simboliche ma alquanto discutibili.  

Due esempi su tutti: la lunga lettera fatta leggere a Marta (Ingrid Thulin) è sì straziante nella sua tragicità, ma era proprio necessario tenere una camera fissa per diversi minuti senza la minima manovra di montaggio? È senz’altro questo un modo per focalizzare completamente l’attenzione sul contenuto di una lettera fondamentale per delineare il rapporto della donna con il pastore Tomas (Gunnar Bjornstrand), nonché alcune caratteristiche di quest’ultimo, determinanti per comprenderne la complessa psicologia. Ma era davvero necessario cancellare totalmente ogni esercizio cinematografico per realizzare la pienezza della parola? Al sottoscritto è sembrato invece che così facendo il testo si appiattisca notevolmente, mancando clamorosamente nel tentativo di creare quel pathos necessario per la tragicità di vicende così personali e irrisolte.  

L’altro esempio è la discutibile modalità con cui Bergman fa partire il film, visualizzando nel dettaglio per oltre dieci minuti (su un film della durata complessiva di ottanta!) il termine di una messa condotta dal pastore Tomas. Comprensibile in sé la scelta di partire con questo espediente narrativo, tanto più che lo stesso si rivelerà determinante per chiudere il film, di fatto un’analisi approfondita di uno squarcio di vita di un religioso in crisi tra due funzioni religiose.  

Ma perché farla durare oltre dieci minuti? Perché ammorbare lo spettatore con inni, salmi e musiche così dettagliate? La risposta in realtà si trova nella stessa biografia di Bergman, in quel padre severo pastore luterano che l’ha cresciuto in maniera severa e rigorosa nei precetti cristiani. L’approfondita realizzazione della cerimonia va quindi vista come un grido di angoscia dello stesso Ingmar, che lungi dall’aver appreso acriticamente il verbo religioso intende rendere l’ansia e il torpore che probabilmente l’assalivano negli interminabili sermoni domenicali paterni cui era costretto ad assistere.  

Ok, Ingmar, volevi farci capire come stavi, e ci sei riuscito perfettamente, però ti faccio notare che così facendo hai fatto addormentare metà della platea che non è riuscita ad andare avanti nella visione del film, mancando quindi tutta quella parte successiva in cui gli si poteva far capire quanto la questione della fede sia tragica e irresoluta.   Questo approccio ascetico, religioso, per l’appunto, è il vero tallone d’achille dell’opera, la quale sarebbe senz’altro interessante per le questioni che porta alla ribalta (l’assenza heideggeriana di Dio, la mancanza di motivazioni per vivere, il suicidio, l’incapacità di amare, il dilemma mostruoso tra un’etica kantiana e la voglia libertaria di cessare le proprie sofferenze) ma che per le modalità tecniche con cui è svolta non riesce assolutamente a coinvolgere lo spettatore.  

Hai voglia allora ad aggrapparti alle interpretazioni più varie e filosofiche per giustificare un film in sé malfatto. Hai voglia a dire in giro che Luci d’inverno è un capolavoro perché c’è quel sottotesto così vario che permette di segnalare una marea di allusioni e sottigliezze. Col senno di poi infatti si possono scrivere pagine e pagine sull’importanza storica e culturale della siffatta opera, simbolo della scristianizzazione e secolarizzazione ormai avanzata di una società in cui perfino i preti hanno problemi a dialogare con Dio. Hai voglia a evidenziare il fatto che il pastore di fatto ha già smesso di vivere, anche se non ha dovuto spararsi un colpo in testa come il povero cristo dubbioso che si era rivolto a lui sperando in una ventata di ottimismo. Si possono dire tutte le cose che si vogliono ma resta il fatto che gli ottanta minuti scarsi del film pesano come un macigno, manco fossero tre volte tanto. E in queste condizioni non c’è messaggio filosofico, autobiografico e religioso che tenga.

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Voto degli utenti: 7/10 in media su 3 voti.

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tramblogy (ha votato 8 questo film) alle 12:09 del 30 dicembre 2012 ha scritto:

5???????????....OMG!!!!

tramblogy (ha votato 8 questo film) alle 12:12 del 30 dicembre 2012 ha scritto:

Perche il silenzio ha ritmo e dinamicità??...della trilogia e' il piu completo e il piu bello. (Il silenzio di dio)

tramblogy (ha votato 8 questo film) alle 12:21 del 30 dicembre 2012 ha scritto:

Che recensione...e' lo stile di Bergman che stai discutendo?mha!?...si sta discutendo del primo piano della tulin?o dei transformer?...mannaggia a me...che mi tocca leggere...