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7/10

La Scelta di Barbara regia di Christian Petzold

Drammatico
recensione di Alessandro Pascale

Estate 1980. Barbara, un medico, ha richiesto un visto di espatrio dalla Germania dell'Est. Per punizione, è stata trasferita da Berlino in un piccolo ospedale di campagna, lontano da tutto. Jorg, il suo compagno che vive in Occidente, sta già pianificanto la sua fuga. Barbara aspetta, restandosene in disparte. Il nuovo appartamento, i vicini, la campagna: niente di tutto questo significa qualcosa per lei. Come chirurgo pediatrico è attenta e sollecita con i pazienti, ma distante con i colleghi. Sente che il suo futuro è altrove.

Ma il suo capo, Andre, la confonde. La fiducia che le dimostra nelle sue capacità professionali, il suo atteggiamento affettuoso, il suo sorriso. Nel mentre si affeziona ad una propria giovanissima paziente in difficoltà che aumenta la sua confusione. Mentre il giorno della fuga si avvicina rapidamente, Barbara comincia a perdere il controllo: su sé stessa, sui suoi progetti, sul suo amore.

 

La Scelta di Barbara è un film che si riscatta inaspettatamente nel finale, in cui si attua la “scelta” che dà il senso (e il titolo) all'opera. Difficile quindi dare una valutazione unitaria su un film che sicuramente spiazza lo spettatore, che nonostante la sapiente tessitura psicologica dei personaggi (con particolare riferimento a quello di Barbara) offre un esito imprevedibile, non tanto per il fatto in sé, quanto piuttosto per il motivo causale che lo determina, il quale viene lasciato alla libera interpretazione dello spettatore.

Da cosa è causata la scelta di Barbara (impersonata da una bravissima Nina Hoss, incantevole figura di donna “forte”) in fin dei conti? Da un cambiamento emotivo e sentimentale? Da un atto di carità umana verso una persona più sfortunata di lei? Dalla figura di Andre (Ronald Zehrfeld) capace di influire su di lei a livello sentimentale? O anche a livello riflessivo-intellettivo, facendole capire la necessità di mettere la propria individualità al servizio di ideali più grandi e non meramente egoistici, fino a quel momento non presi minimamente in considerazione da Barbara?

Probabilmente la soluzione dell'enigma sta nell'unità e nella compresenza di tutti questi fattori, che spingono ad un ripensamento complessivo delle priorità materiali e ideali della protagonista, fino a quel momento sicura di una rigida bipartizione del mondo: da una parte l'Ovest con il proprio amore, la speranza di migliori condizioni di vita e di una felicità individuale, dall'altra parte l'Est con il regime liberticida in cui tutto è grigio e oppressivo.

Da questo punto di vista uno dei momenti più significativi e di rottura è forse la scena in cui Barbara capita per caso presso l'appartamento del proprio “vigilante” incaricato di sorvegliarla in maniera asfissiante giorno e notte: lì scopre i tratti umani del “carnefice”, afflitto da una situazione familiare drammatica (la moglie morente di cancro, ormai ridotta ad assumere dosi massicce di morfina per non sentire dolore) capace forse di spiegare lo zelo con cui tale vigilante compie il proprio lavoro, secondo i dettami della legge, e forse l'odio verso chi rifiuta di ricompensare “i contadini e gli operai” per l'istruzione e le possibilità offerte gratuitamente.

Non è un film lineare La Scelta di Barbara, e nonostante la sua accentuata vena antiautoritaria evidentemente politica (vedi film come Le vite degli altri), presenta una volontà inedita di ampliare l'analisi scavando la psiche e i sentimenti umani, tentando anche una parziale (seppur insufficiente) spiegazione di come e perchè si siano potuti verificare certi eventi ed atteggiamenti nella Repubblica Democratica Tedesca. Questa volontà “antropologica” non può non ricordare il Goodbye Lenin di Becker. Nonostante la palese diversità dei due film emerge un Paese in cui la realtà sociale, umana e culturale non corrisponde assolutamente alla monotonia conformistica e tetra con cui si è soliti descrivere i regimi a socialismo reale.

Ciò non impedisce che emerga un netto profilo di denuncia da parte di Petzold (che oltre alla regia firma anche la sceneggiatura, con la consulenza di Harun Farocki), evidente in particolare nella prima parte dell'opera, e che diventa probabilmente uno dei motivi necessari anche se non sufficienti della vincita dell'Orso d'Argento al Festival di Berlino del 2012. Dal punto di vista stilistico infine è forte il richiamo ad un realismo asciutto, silente, senza troppi fronzoli, in un tentativo di coniugare Rossellini e Haneke. L'operazione non riesce appieno, e qualche tempo morto di troppo c'è, ma l'effetto è comunque vigoroso grazie all'interpretazione dei personaggi, ad una sceneggiatura valida e ad una scenografia essenziale ma viva e colorata.

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