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6/10

Donne Senza Uomini regia di Shirin Neshat

Drammatico
recensione di Alessandro Pascale

Nell’estate del 1953 la vita di quattro donne iraniane si intreccia con congiunture storiche drammatiche per il paese: il colpo di stato appoggiato dagli americani e dagli inglesi che portò alla restaurazione al potere dello Shah e alla deposizione del Primo Ministro democraticamente eletto Mohammad Mossadeq.

Fakhri, Zarin, Munis e Faezeh sono quattro donne, che provengono da quattro classi sociali differenti, ma condividono i momenti drammatici del contesto politico in cui si trovano. Fakhri è una donna di mezza età, che è costretta in un matrimonio in cui i sentimenti sono assenti, ma in lei arde ancora la passione per una sua vecchia fiamma che è tornata dall’America. Zarin è una giovane donna che si prostituisce e che vive il dramma di non riuscire più a vedere i volti degli uomini. Munis ha un fortissima coscienza politica, ma deve subire l’isolamento impostole dal fratello tradizionalista e religiosamente intransigente. La sua amica Faezeh, invece, è totalmente indifferente a quanto accade al di fuori del giardino ove queste donne si sono rifugiate e sogna costantemente di sposare il fratello di Munis.

Avendo vinto il Leone d’Argento al Festival di Venezia del 2009 l’esordio alla regia di Shirin Neshat (in passato artista iraniana a tutto campo, rifugiatasi a New York dedita ad un impegno sociale e politico) si presentava ovviamente con un certo credito. Eppure nonostante si debbano riconoscere le qualità tecniche e la la lodevole volontà di gestire una tematica senz’altro impegnativa, urge andare subito al sodo: Donne senza uomini purtroppo è un film lento, molto lento, di quelli proprio pesanti che fai fatica a tenere gli occhi aperti mentre lo guardi.

Mi vergogno un po’ a dire certe cose, soprattutto perché sembrano osservazioni da ragazzino quindicenne fancazzista, per questo cercherò di giustificarle in maniera un minimo elaborata: innanzitutto c’è da considerare che l’attenzione per l’evoluzione psicologica delle quattro donne protagoniste, per quanto sia ficcante, è figlio di una gestazione assai lunga e faticosa, facendo eccessivo ricorso a tempi muti e formalismi visivi che sarebbero stati più efficaci se dosati con maggiore parsimonia.

Poi l’aspetto tematico, incapace di conciliare due mondi diversissimi tra loro: da una parte l’aspetto storico-politico, con tanto di concretezza democratico-rivoluzionaria e lotta antimperialista stroncata dall’esercito, dall’altro un piano bucolico-spirituale in cui le anime femminili trovano rifugio dalle prepotenze maschili e sociali di un mondo illiberale e repressivo. La Neshat tenta di tenere strettamente intrecciati i due mondi (fisicamente ben distanti tra loro, come testimonia l’isolamento della villa in cui si svolge parte delle vicende) tramite la figura simbolica di Zarin, la cui caduta fisica simboleggia il declino spirituale e politico di una nazione in crisi.

L’elemento magico e surreale lega le varie vicende e trova pieno compimento in una fotografia per molti versi affascinante ma spesso ridondante, che gode troppo di sé stessa, marcando una dicotomia troppo marcata tra le fasi di azione e quelle di stasi mistica e quasi animistica (tale la rappresentazione poetica di una natura vivente di stampo quasi Tarkovskjano). Da segnalare quindi una certa artificiosità (o astrattezza?) di fondo nelle relazioni tra le donne, in definitiva sconfitte in maniera cruda e brutale, con poche se non nulle possibilità di riscatto, fallite sia la via movimentista-politica, che quella isolazionista-bucolica.

Di qui il pesante pessimismo di un’opera impegnata principalmente sul tema dell’emancipazione femminile (ma non solo) di forte impatto e denuncia. Quanto bastava per mobilitare la giuria del Festival di Venezia e dimenticare i non indifferenti difettucci irrisolti del film. Quanto basta però anche per giustificarne un certo merito, per sopportare un’andatura non così vitalizzante e per far riflettere molte coscienze su temi lontani dalla mentalità comune.

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