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9/10

La Banda Baader Meinhof regia di Uli Edel

Drammatico
recensione di Alessandro Pascale

Nascita, ascesa e declino della banda Baader Meinhof, nucleo originario della RAF che mise a ferro e fuoco la Germania negli anni '70-80 con le sue azioni terroristiche

È un affresco davvero memorabile quello messo a punto da Uli Edel. Memorabile per i 150 minuti che lasciano col fiato sospeso dall’inizio alla fine. Memorabile per come riesce a spiegare la nascita di un movimento ribelle e un pò romantico che si propone di cambiare il mondo, e la sua rapida degenerazione in un’azione violenta e raggelante. Memorabile per i modi di ritrarre una società complessa, viaggiante sui binari vincenti di un progresso economico slegato dalla morale incapace di accontentare tutti, tantomeno una generazione affamata di giustizia, libertà, uguaglianza e pacifismo. Una generazione quella che matura negli anni ’60 che non ha timore di condannare apertamente il nazismo e con essi i suoi complici (ossia i propri stessi padri) più o meno silenziosi, e i suoi seguaci ancora presenti nelle istituzioni e nelle forze dell’ordine. Una generazione che non riesce e non vuole per questo sottomettersi al nuovo grande nemico ideale: gli USA, la cui guerra in Vietnam è la calamita principale che mette assieme i pezzi del grande movimento popolare di protesta.

Memorabile anche per struttura filmica e scelte di regia, pienamente inserite nella tradizione del Neue Deutsche Welle (Nuovo Cinema Tedesco) dei ‘70s che faceva ampio uso di filmati d’epoca, collages, brani documentari e in generale ogni altro artifizio che consentisse di “spezzare” la fiction per gettarvi semi di maggiore realismo. Diversi anche i film tedeschi che all’epoca (fine ‘70s, inizio ‘80s) si occuparono di investigare la realtà della RAF: Germania in autunno, Anni di piombo e La terza generazione. Prendendo spunto proprio dall’ultimo di questi, capolavoro di Fassbinder del 1979 possiamo notare nettamente quale sia la differenza di approccio sopravvenuta nell’arco di trent’anni. Fassbinder realizzava un film freddo e glaciale da cui non traeva condanne esplicite per i terroristi (visti anzi come delle marionette incapaci di azioni teoriche e pratiche autonome) ma anzi li spiegava come una logica conseguenza della stessa corrotta società capitalista tedesca, individuando di fatto in questa il vero responsabile del sangue versato.

Edel è meno disposto a simili revisionismi ideologici ma si mostra comunque più sfumato: la prima parte del film non risparmia uno sguardo di simpatia per il movimento socio-politico in lotta anche fisica con una forza dell’ordine e un sistema dell’informazione solo apparentemente tali. Di qui un ritratto iniziale quasi bonario della banda che rapina le banche, seguace nell’iconografia popolare di furfanti “onesti” come Bonny & Clyde o Robin Hood. La giornalista Ulrike Meinhof (Martina Gedeck) è ritratta in tutta la sua bellezza e all’apice di una carriera di successo in cui la sua penna e la sua sagacia fanno breccia nella giovane generazione in rivolta. Andreas Baader (Moritz Bleibtreu) e la sua compagna (amorosa e politica) Gudrun Ensslin (Johanna Wokalek) diventano le icone da ammirare, gente che viene vista come rivoltosa ai poteri forte nell’interesse del popolo. Gente che in molti non esiterebbero ad ospitare in casa di nascosto a proprio rischio e pericolo. Tale è il retroterra culturale e ideologico dell’epoca, in profondo rinnovamento in un paese che rifiuta per Costituzione la creazione di un partito comunista ma che di fatto non ha ancora superato del tutto il periodo nazista. Edel ci tiene a dirsi partecipe di questo splendido movimento e dipinge personaggi e azioni in maniera passionale e romantica, con ritmo e brio, dedicandovi memorabili scene di lotta e scenografie (il comizio carico di bandiere rosse, l’attacco vittorioso alla sede del giornale “reazionario”).

Poi però arrivano i primi omicidi e l’immagine si incrina. Inizia la fuga, la reclusione, la caccia all’uomo. Piano piano tutti i terroristi cadono nelle mani della polizia. Il sangue non manca e la protesta resta forte nella società. Ma i tempi stanno cambiando e il riflusso guadagna sempre maggiore spazio. La gente sogna meno e fatica a capire i sempre maggiori crimini. La gente comincia ad aver paura. La banda Baader Meinhof finisce dietro le sbarre e l’abbruttimento fisico segue quello morale, quasi come se il ritratto gioviale e fresco di pocanzi si fosse trasformato in un diabolico quadro nascosto nell’appartamento di Dorian Gray.

L’isolamento dei singoli membri l’uno dall’altro segue il distacco sempre maggiore tra il movimento stesso e la società, tanto da rendere incomprensibile agli stessi membri del gruppo il fatto che non sia ancora scoppiata la rivoluzione. A questo punto il trapasso è già avvenuto: la RAF è diventata un mito, sì, ma un mito escludente, ristretto ai pochi disposti a sacrificare la vita per la causa. Per la gran parte del paese è simbolo di terrore e sangue. Il distacco con il popolo viene emblematicamente raffigurato dai protagonisti della “terza generazione”, due giovani biondi (ariani?) dagli occhi azzurri di ghiaccio. Sul volto nessuna espressione, nessun sentimento. La gioia del ’68 è scomparsa, lasciando il posto ad uno sterile dogmatismo ideologico che per arrivare all’obiettivo ultimo (la rivoluzione) è disposta ad ogni sacrificio (compreso il massacro di civili innocenti o il sequestro di aerei commerciali), dimenticando (o non capendo) che non è il fine a giustificare i mezzi ma sono i mezzi a giustificare il fine (Albert Camus docet). I sogni, le utopie, le domande ideali sono ormai scomparse e lo strappo finale, quello definitivo, è l’inevitabile suicidio collettivo, estrema arma del gruppo per auto-propagandare sé stesso, alimentando la teoria degli “omicidi di Stato”. Il modo in cui Edel ritrae quest’ultima parte è spietato: personaggi afflitti da dubbi e schizofrenia (la Ulrike), da abbruttimento fisico e morale, privo dell’originaria spavalderia, fino alla voluta morte per fame di Holger Meins, evidente tentativo di ricalcare le vittime dei campi di concentramento nazisti nella loro atroce agonia di un corpo scheletrico.

L’omicidio dell’industriale Hanns Martin Schleyer chiude il film lasciando l’amaro in bocca, nella coscienza che “le nuove generazioni saranno molto più combattive del nucleo originario”. Il film finisce con un morto ammazzato, così come era iniziato. Se all’inizio era la polizia il criminale il ribaltamento dei ruoli avvenuto al termine di un decennio (1967-77) a dir poco travagliato è evidente. Rimane solo l’intuizione manifestata nel film dall’agente anti-terrorismo Horst Herold (Bruno Ganz): per distruggere un fenomeno come la RAF non serve spargere il sangue dei suoi membri, occorre cambiare a fondo la società eliminando le ingiustizie presenti in essa.

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alexmn 8/10

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