R Recensione

7/10

Il Ponte delle Spie regia di Steven Spielberg

Storico
recensione di Alessandro Pascale

L'avvocato di Brooklyn James B. Donovan si ritrova al centro della guerra fredda quando gli viene assegnato l'incarico di negoziare il rilascio di Francis Gary Powers, un pilota il cui aereo spia U-2 è stato abbattuto sopra l'Unione Sovietica.

Il ponte delle spie è puro classicismo Spielberg. Il che lo renderà certamente un film godibile sia per il grande pubblico sia per la critica. E in effetti l'opera merita gli elogi che gli verranno fatti, per svariati motivi, tra i quali non è da dimenticare il tocco dei fratelli Coen, che si fa sentire sia in certe gag umoristiche sdrammatizzanti sia nella caratterizzazione della sardonica spia sovietica Rudolf Abel (un eccellente quanto impassibile Mark Rylance). Brilla la consueta attenzione tecnico-stilistica di Spielberg, che emerge in particolare modo nella cura data alla splendida fotografia e nelle spettacolari coreografie della Berlino Est e del mondo comunista. Come se il cinema classico hollywoodiano (con tanto di richiamo all'importanza della famiglia) non fosse mai finito, i ritmi scorrono puliti, concisi e dettagliati, in linea con la precisione di un protagonista, Tom Hanks, che torna alla ribalta dopo qualche anno di ruoli e prove non propriamente eccezionali. Il ruolo che ricopre sembra in effetti tagliato su misura per lui che lo porta a termine con la perizia di un artigiano del mestiere. Spielberg pone il suo personaggio, incarnante il modello etico e virtuoso per eccellenza, al di sopra delle parti, facendone un eroe dai tratti umani e raggiungibile da chiunque sai animato da tenacia e forza di volontà. Il problema sorge laddove si cerca di coniugare questo sforzo con una volontà di staccarsi soltanto parzialmente dallo sguardo neutrale nei riguardi della guerra fredda. A tal riguardo Il ponte delle spie, che si pone come un film storico che spazia dal genere legal-giuridico a quello “spy story”, è in realtà un'opera assai più politica di quanto non sembri ad un primo impatto, agendo piuttosto implicitamente nell'inconscio. Non basta infatti mettere sul piedistallo un modello di umanismo integrale incarnato dall'avvocato James Donovan (Hanks) e dalla sua controparte sovietica Rudolf Abel. Nonostante si mostri come i motivi della “ragion di stato” non siano esclusiva dei comunisti ma anche del governo USA (ed in questo sta certo una nota polemica del regista), è evidente che nello scontro si parteggi esplicitamente per la patria del regista. Il dato non è così evidente, dato che a finire in chiaro-scuro non sono solo le dinamiche della CIA ma anche la mentalità popolare americana, sempre pronta all'isterismo fondamentalista e al linciaggio. Il messaggio che propone a tal riguardo Spielberg però è che proprio grazie all'azione di uomini come Donovan la società americana sia in grado di curare e correggere i propri errori, visti come necessità o pecche umane. Dall'altra parte del muro di Berlino invece non c'è spazio per tale riconciliazione. I governi comunisti sono ritratti come entità burocratiche insensibili, spietate ed assassine. Non c'è da parte di Spielberg nessun accenno alla questione del fanatismo maccartista, che pure ebbe la sua scia in quegli anni, ed è sintomatico che in tutto il film non compaia neanche una volta un personaggio di colore, il sintomo più evidente delle profonde contraddizioni dell'America WASP di quegli anni. Gli USA rappresentano per Spielberg quelle garanzie costituzionali che rendono la sua democrazia migliore di qualsiasi altro contraltare socialista, di cui infatti ci si rifiuta di mostrare i vertici decisionali, se non qualche pedina prontamente ridicolizzata (tale ad esempio il destino subito dall'avvocato Vogel della DDR), banalizzandone anche le conquiste economico-sociali. Perfino il finale mostra una presunta differenza di trattamento che suggerisce allo spettatore che mentre il prigioniero americano torna in patria da eroe accolto a braccia aperte, quello sovietico va incontro a torture e forse la morte. Essendo il film ispirato ad una storia vera occorre allora dirlo qui che il Rudolf Abel rientrato a Mosca, non solo non venne torturato, ma venne onorato dell'Ordine di Lenin, ottenendo poi l'incarico di insegnante alla scuola ufficiali del KGB. Tutto questo Spielberg non lo dice, ma non ci si deve stupire troppo. È la libertà dei vincitori di raccontare la storia che si preferisce.

V Voti

Voto degli utenti: 7,4/10 in media su 5 voti.
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alexmn 7/10

C Commenti

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tramblogy alle 10:33 del 3 gennaio 2016 ha scritto:

nella didascalia finale non si racconta che fine ha fatto abel??....veramente?l' ho visto ieri....e non me lo ricordo...

fabfabfab (ha votato 8 questo film) alle 18:58 del 27 gennaio 2016 ha scritto:

Bel filmone. Classico, quasi prevedibile, ma bello.