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9/10

Capitalism A Love Story regia di Michael Moore

Politico
recensione di Alessandro Pascale

Nel ventesimo anniversario del suo rivoluzionario capolavoro Roger & Me, Capitalism: A Love Story riporta Michael Moore ad affrontare il problema che è al centro di tutta la sua opera: l'impatto disastroso che il dominio delle corporation ha sulla vita quotidiana degli americani (e, quindi, anche del resto del mondo). Ma questa volta il colpevole è molto più grande della General Motors e la scena del crimine ben più ampia di Flint, Michigan. Dalla Middle America fino ad arrivare ai corridoi del potere a Washington e all'epicentro finanziario globale di Manhattan, Michael Moore porterà  ancora una volta gli spettatori su una strada inesplorata. Con umorismo e indignazione, Capitalism: A Love Story di Michael Moore esplora una domanda tabù: qual è il prezzo che l'America paga per il suo amore verso il capitalismo? Anni fa, quell'amore sembrava assolutamente innocente. Tuttavia, oggi il sogno americano sembra sempre più un incubo, mentre le famiglie ne pagano il prezzo, vedendo andare in fumo i loro posti di lavoro, le case e i risparmi. Moore ci porta nelle abitazioni di persone comuni, le cui vite sono state stravolte, mentre cerca spiegazioni a Washington e altrove. Quello che scopre sono dei sintomi fin troppo familiari di un amore finito male: bugie, maltrattamenti, tradimenti... e 14.000 posti di lavoro persi ogni giorno. Capitalism: A Love Story rappresenta una summa delle precedenti opere di Moore, ma è anche uno sguardo su un futuro nel quale una speranza è possibile. E' il tentativo estremo di Michael Moore di rispondere alla domanda che si è posto in tutta la sua carriera di regista: chi siamo e perchè ci comportiamo in questo modo?

C’è un ragazzo con la kefiah che arriva pochi istanti prima della proiezione anteprima del film di Michael Moore. In sala i giornalisti più o meno seri e professionali lo guardano come si può guardare un marziano, intuendo subito la sua natura da comunistello da due soldi accorso per l’occasione come l’orso sul miele. In effetti la sua barbetta ed il suo aspetto trasandato non lasciano molti dubbi sulle sue simpatie politiche, se c’è un fondo di verità al detto che l’abito fa il monaco. D’altronde che Capitalism: A Love Story sia un film di parte non c’è dubbio, così come non c’è dubbio che Michael Moore sia uno di quei pochi americani illuminati in grado di mettere in discussione un modello economico tendenzialmente malato e gravoso per l’umanità.  

Il documentario-film che segue dovrebbe essere illuminante a riguardo per tutti i qualunquisti e borghesucci accorsi al piccolo evento. Moore non cambia stile cinematografico con cui è diventato un famoso, specie dopo il boom avuto con Fahrenheit 9/11: il formato è sempre quello: mix sapiente di interviste, indagini più o meno pubbliche, inserti di spezzoni filmici e televisivi d’epoca e un particolare gusto per l’ironia ed il grottesco. Stavolta però il bersaglio è bello grosso. Se con Fahrenheit si attaccava in maniera primaria la famiglia Bush e con Sicko l’inefficenza (per non dire assenza) del servizio sanitario americano qui si va dritto al nocciolo della questione: il capitalismo.  

Questo parolone per cui l’Occidente sembra ormai provare una tale riverenza da renderlo cieco dinnanzi alle sue tremende storture e conseguenze sui cittadini. Moore gioca di striscio, partendo dalle persone, dai pignoramenti delle case, dai quartieri abbandonati e dai diritti calpestati quotidianamente. Immagini di sicuro effetto su cui si fa leva per sollevare un certo pathos e melodramma.  

Poi vi pone a fianco il lussuoso contraltare: i pezzi grossi della politica, dell’economica e della finanza, spesso le stesse persone che si scambiano le poltrone per agevolare i propri interessi, dimenticando di dover fare il bene dei cittadini e delle comunità. Il bene comune insomma, parola che puzza talmente in America da essere subito associata a quella di socialismo, e quindi (con una procedura estremamente sempliciotta e ignorante) all’Unione Sovietica e al “socialismo reale” del ventesimo secolo.  

Piano piano Moore snocciola i problemi e tutto diventa evidente: profitto, libero mercato, capitalismo non sono verbi intoccabili, ma solo degli strumenti che possono essere più o meno positivi a seconda delle circostanze storiche e politiche. Non sta scritto neanche nella Costituzione Americana che gli USA sono fondati sul capitalismo. Moore si diverte perfino a rievocare una perla sconosciuta ai più: un discorso di Franklin Roosevelt in cui si proponeva di creare una seconda carta dei diritti, tutta dedicata alle questioni sociali.  

Nonostante il susseguersi di immagini e narrazioni tragiche e al limite del grottesco l’impronta del film verte però ad un neanche troppo cauto ottimismo. Merito di una coscienza popolare che pare ridestarsi dopo gli otto anni di governo Bush e (soprattutto) dopo aver subito sulla propria pelle la pesantissima crisi finanziaria del 2008. Lo sguardo si focalizza quindi sulle lotte di operai e cittadini che escono vittoriosi in dure battaglie per riacquistare i loro diritti. Sono solo barlumi, accenni di una lotta che deve essere condotta a livelli ben più ampi, in nome del principio democratico, quello sì, ben presente nella Dichiarazione d’Indipendenza Americana.  

Ma soprattutto c’è lui, la grande speranza, Obama, il presidente che si schiera con gli operai, come fece a suo tempo il già citato Roosevelt. In mezzo c’è perfino spazio per dare voce all’unico deputato socialista del Congresso (già perché nonostante nessuno lo sappia, in America c’è un Partito Socialista che riesce ad avere un deputato). In definitiva Capitalism: A Love Story un affresco imponente, degno di quel grande uomo e regista che è Michael Moore.  

A fine proiezione il ragazzo con la kefiah nel silenzio generale si mette ad applaudire spudoratamente con convinzione. Molti lo guardano male, qualcuno vorrebbe appoggiarlo ma si vergogna, qualcun altro non si è ancora ripreso dalle notizie assorbite dal film. Ovviamente quel ragazzo con la kefiah sono io. Io che mi sono rotto i coglioni di questo sistema malato e della superficialità con cui la gente accetta un sistema che impone il più bieco sfruttamento di uomini e risorse. Anche per questi motivi giudico Capitalism a Love Story un capolavoro. Il mio è un giudizio che va ben oltre l’estetica cinematografica. È un giudizio politico. Siatene coscienti quando imprecherete contro le quattro stellette e mezzo del voto. Non ho altro da aggiungere, se non un caloroso saluto al compagno Michael Moore.

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Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 4 voti.

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Marco_Biasio (ha votato 7 questo film) alle 22:05 del 24 dicembre 2010 ha scritto:

Ho letto con piacere la recensione e mi è molto piaciuta, per quanto profonda e sentita. Bravo Alessandro... Il film poteva invece essere più cattivo, dato l'argomento. Sembra invece che in America le voci critiche debbano sempre ricondursi, in ogni caso, al modello di partenza, senza discostarsene (ed infatti vedi le reazioni e le titubanze all'apparire della parola socialismo). Ogni tanto Moore scade in un pietismo che nelle sue pellicole precedenti non c'era, e questo mi ha fatto storcere un po' il naso. Molto meglio gli extra presenti sul dvd, che allargano il campo d'azione anche alla faccenda alimentare - stile "Super Size Me" - e sottolineano con particolare importanza l'esistenza di uno strettissimo legame fra capitalismo ed ambiente (un tema che nel film viene accennato, ma non supportato a dovere). D'altro canto i dati che vengono citati sono orripilanti (a me ha fatto accapponare la pelle la questione dei "Dead Peasants"...) e la convinzione che questi stronzi si meritino il peggio possibile ha la meglio su tutto. Visto con quasi due anni di ritardo fallisce però la previsione su Obama e la sua svolta: anch'esso, come i suoi predecessori, ha finito per farsi legare la bocca dal Congresso e dall'opposizione repubblicana, trasformandosi in una semplice marionetta.

Peasyfloyd, autore, (ha votato 9 questo film) alle 11:37 del 26 dicembre 2010 ha scritto:

gli extra non li ho visti ma devono essere molto interessanti...

purtroppo in america non capiscono che non si esce per via politica da questo sistema appoggiandosi al bipolarismo presente. Obama è solo un uomo, e da solo non è in grado di toccare i cardini strutturali del capitalismo. Da uno come Moore una cosa tanto banale sembrerebbe scontato attendersela cmq, è vero.