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9/10

Una Separazione regia di Asghar Farhadi

Drammatico
recensione di Alessandro Pascale

Simin, sposata con Nader, vuole lasciare il paese con il marito e la figlia, ma Nader non è delle stessa opinione. Egli è preoccupato per il suo anziano padre, che è malato di Alzheimer. Quando Nader decide fermamente di rimanere in Iran, Simin chiede il divorzio.

La domanda di Simin viene respinta dai giudici, che ritengono i problemi della coppia non abbastanza gravi da giustificare il divorzio. Simin lascia così il marito e la figlia e torna a vivere con i suoi genitori. Nel frattempo, Nader assume Razieh, una giovane donna, incinta e profondamente religiosa proveniente da un quartiere povero, per prendersi cura del padre mentre lui lavora in una banca. Razieh ha fatto domanda per il lavoro senza consultare il suo irascibile marito Houjat, la cui approvazione, secondo la tradizione, è necessaria...

 

Lo avevamo lasciato con lo squisito About Elly, lo ritroviamo con un pesantissimo Premio Oscar al miglior film straniero (che si accompagna a niente poco di meno che un Orso d'oro) che, non dubitiamo, Farhadi si accollerà sulle spalle molto volentieri. Il suo quinto lungometraggio, Una separazione, riesce infatti a sbancare tutto.

E sì che probabilmente il governo iraniano avrebbe preferito un minor successo per Farhadi, visto l'occhio critico (usiamo un eufemismo) con cui rappresenta la società del suo Paese. Come in About Elly assistiamo ad un dramma impregnato di un'atmosfera al limite del giallo. Cambia l'ambientazione, passando dalla villetta isolata sul mare, agli ambienti affollati e asfissianti della città. E se la religione rimane al centro delle vicende emergono nuovi elementi di notevole interesse: la conflittualità, pur continuando a passare per le forche religiose, assume una connotazione classista, con lo scontro tra due famiglie di diversa estrazione economico-sociale (da una parte il ceto medio benestante, dall'altra il proletariato povero). Scontro che avviene attraverso un intricato ricorso alle vie legali, il che permette a Farhadi di mettere in evidenza (e implicitamente di criticare) sia le leggi, troppo restrittive e rigide, che gli apparati burocratici, rappresentati da funzionari ligi al loro dovere e incapaci di provare la minima compassione sfidando il rigoroso conformismo giuridico.

Conformismo giuridico che è strettamente ancorato alla legge islamica, stante la natura del regime politico iraniano (e verrebbe da dire: “il cerchio si chiude...”). Ciò però fa effetto fino ad un certo punto, se si conosce l'estrema variabilità e assurdità di ogni diritto storico e positivo (compresi quelli occidentali). Il vero elemento comico-grottesco è però rappresentato dal personaggio di Razieh, la badante assunta da Nader per accudire il proprio padre. Con Razieh si sfiorano livelli di elevata comicità inconsapevole, che raggiungono il picco quando nel finale si rifiuta di giurare il falso sul Corano per il sincero timore che a causa di ciò possa incombere una disgrazia sulla propria figlioletta. Quando la norma viene imposta dall'esterno si può denunciare la violenza della legge, ma quando la norma ingiusta (e superstiziosa) è introiettata e fatta propria ad un simile livello, non si può far altro che portare un fiore sulla tomba di Kant sperando che prima o poi illumini la mente di Razieh.

Una separazione però è un film completo che assomma molteplici elementi di interesse, tra cui di centrale importanza vi è senz'altro la crisi delle relazioni familiari, vissute in un conflitto triangolare senza via di uscita tra attaccamento al territorio e alle proprie radici culturali, volontà di mantenere unita la famiglia e tentativo di crearsi un futuro diverso, più libertario e pieno di possibilità. Questo conflitto tra i freschi divorziati Simin e Nader si ripercuote sulla figlia undicenne Termeh, e si intreccia all'ulteriore conflitto con Razieh e il suo focoso (e disoccupato) marito. Una separazione si staglia allora come una raffinata narrazione della vita quotidiana di Teheran, capace di raggiungere i suoi problemi più intimi e “nuovi” (in buona misura figli delle evoluzioni socio-politiche del Paese) come quelli di più antica conoscenza.

Tutto ciò viene svolto in uno stile dinamico e colto, con sprazzi di aperto post-modernismo: la scena iniziale in cui la coppia di coniugi parla direttamente in camera è un esempio fin troppo evidente. Il frequente ricorso della camera a mano e di soggettive ardite lo è altrettanto. Ma anche il finale, teso in una inquadratura geometrica ed equidistante in cui i due poli dell'opera rimangono statici, mentre tutto intorno si muove, diventa lo specchio dell'incapacità da parte della figlia (e, vien da dire, dello stesso spettatore) di esprimere un giudizio definitivo su quale dei due coniugi sia il più meritevole di mantenerne l'affidamento.

Il pregio più grande dell'opera è infine forse proprio questo: quello di non imporre un quadro morale ed etico definitivo. Tutti i personaggi sono a loro modo speciali e “double face”. Ognuno di essi è rappresentato ottimamente nella sua complessità psicologica. Ognuno di essi è umano. E come tale ingiudicabile moralmente. Né dallo Stato né da Dio.

V Voti

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