A Drive - Analisi di un Capolavoro

Drive - Analisi di un Capolavoro

In occasione dell'uscita del dvd e blu-ray di Drive (22 febbraio 2012), alcuni nostri collaboratori si sono riuniti per cercare di sviscerare ogni aspetto dell'opera di Nicolas Winding Refn.

Fulvia Massimi

Palma d’oro per la regia a Cannes 2011, Nicolas Winding Refn si guadagna ogni secondo dell‘hype generato intorno alla sua opera ultima. Il suo Drive – attesissimo thriller “automobilistico” ispirato al romanzo omonimo di James Sallis e interpretato da uno straordinario Ryan Gosling – è un gioiello cromato dalla bellezza ipnotica, ennesimo saggio di un cinema d’ispirazione postmoderna, capace di assemblare valori narrativi e discorsivi “tradizionali” (ma rielaborati in chiave personale) in un ingranaggio sofisticato e audace come un motore d’avanguardia.

Forte di una sceneggiatura essenziale, firmata dal candidato all’Oscar Hossein Amini (per la prima volta nella sua filmografia non è Refn a occuparsi dello script), Drive rappresenta la massima espressione del credo cinematografico del regista danese: un impasto di minimalismo strutturale ed espressionismo cromatico nel quale costruzione dell’immagine e potenza del suono si fondono in un tutt’uno magnetico e indivisibile.

A cominciare dalla sequenza d’apertura – una fuga da antologia finalizzata a svelare il modus operandi del protagonista – Refn dichiara, o meglio, ribadisce, la sua chiara predilezione per un cinema schietto e conciso, entro cui l’eccesso non ha modo di esplicarsi se non attraverso la rappresentazione di una violenza esasperata e grottesca (pur senza raggiungere la dilagante follia di Bronson): un cinema che sembra riportarsi (e riportarci) all’epoca del muto senza però rinnegare l’importanza rivoluzionaria del sonoro.

L’abilità di Refn nel miscelare ad arte codici visivi e musicali raggiunge in Drive risultati eccellenti, grazie all’ottimo montaggio di Mat Newman (alla sua terza collaborazione con il regista) e ad un trattamento della colonna sonora volto ad istituire un preciso legame, anche testuale, con le sequenze ad essa associate. Se i ritmi elettronici delle musiche originali composte da Cliff Martinez servono a rilevare la progressiva evoluzione del protagonista, da diligente “impiegato” criminale a implacabile macchina vendicativa, i brani “esterni” - Nightcall di Kavinsky & Lovefoxxx sui titoli di testa, Under Your Spell dei Desire e A Real Hero dei College (prove di un gusto musicale notevole quanto quello visivo) – ne testimoniano invece il portato interiore, senza metterlo (diegeticamente) allo scoperto.

La recitazione misurata e trattenuta di Gosling – apatico e pressoché inespressivo nel suggerire la freddezza del suo personaggio ma al contempo magistrale nel comunicarne le più flebili variazioni emotive (magnifici i controcampi visivi con la Mulligan) –  si pone così al servizio di uno sguardo registico che opera per sottrazione, generando, paradossalmente, un’estetica del sublime: affascinante e insieme repulsiva ma tesa a valorizzare la bellezza delle piccole cose, l’incanto che nasce dallo squallore dell’asfalto e dal sangue versato su di esso.

La città, come una giungla urbana, risponde solo alla legge della violenza e l’amore, privo dell’inutile necessità di essere esibito, esplode in spazi chiusi e domestici, travolgendo chi lo prova e chi lo osserva (la sequenza in ascensore è di una perfezione che toglie il fiato) con una forza senza parole. Il silenzio, sovrastato dall’eco extra-diegetica della soundtrack, penetra nello spazio vuoto di dialoghi scarnificati e sguardi che non hanno bisogno di essere spiegati; il ticchettio solitario di un orologio scandisce il tempo effimero che separa la vita dalla morte (stimato in cinque minuti) mentre lo stridore dei freni si impasta al gorgoglio del sangue e al suono ovattato e terribile della carne massacrata, in un’escalation di violenza glaciale e disumanizzata, ridotta infine a pura ombra, gioco di luci su un marciapiede (notevole in questo senso la fotografia di Newton Thomas Sigel).

Refn – e Newman con lui – manipola la fabula a proprio piacimento, anticipando e sovrapponendo momenti cronologici differenti, in modo da fornire allo spettatore un canale privilegiato di conoscenza: l’uso insistito ma mai stancante del ralenti imprime al film una fluidità incantatrice e rasserenante (per quanto rivolta a tradurre lo stato d’animo di un personaggio profondamente inquieto), bruscamente interrotta da schegge di follia omicida che impazziscono senza preavviso, con inaspettata ferocia. Ad un’impressionante padronanza delle riprese in movimento (magnifiche le sequenze d’inseguimento), Refn associa la consueta bravura nella costruzione del quadro, favorita da un senso estetico non comune (qui “normalizzato” e meno improntato alla deformazione) e da un dominio pressochè totale del mezzo filmico, meritatamente riconosciuto a Cannes.

Un plot non particolarmente innovativo – prevedibile nella sua linea “sentimentale”, meno in quella criminale – viene così vivificato da uno stile autocosciente e consapevole dei modelli cui si ispira, capace di volgere a proprio favore le ristrettezze di un budget limitato grazie ad una messa in scena minimale ma esaustiva e ad un cast di comprimari “da piccolo schermo” (Ron Perlman di Sons of AnarchyBryan Cranston di Breaking Bad e Christina Hendricks di Mad Men) ma di grande spessore. Le eventuali (ma trascurabili) lacune narrative – lo script di Amini pecca soltanto (e parzialmente) di scarsa originalità – si arrendono allora alla competenza di un regista che, senza anacronismi di sorta, si potrebbe tranquillamente fregiare dell’appellativo di auteur contemporaneo e le cui aspirazioni future (a differenza di quelle del suo protagonista senza nome) si preannunciano in continua ascesa.

Cristina Coccia

"Dammi ora e luogo e ti do cinque minuti. Qualunque cosa accada un minuto prima e un minuto dopo quei cinque minuti te la cavi da solo". Drive inizia così, prima ancora dei titoli di testa, prima ancora che la storia cominci a delinearsi. Un ottimo autista che riesce sempre a distaccarsi dal suo lavoro e che ha sempre un piano perfetto può lasciarsi coinvolgere almeno per una volta? L’interrogativo è implicito già dalla prima sequenza d’azione. Segue una lenta carrellata notturna sulle strade di Los Angeles, un primo piano del protagonista, ripreso dal basso, e i meravigliosi titoli di testa in perfetto stile anni ’80, con tanto di rosa shocking. Il contrasto è già palesemente impressionante. Questo è lo stile di Nicolas Winding Refn, uno stile che colpisce come un pugno allo stomaco, energico e inaspettato, adorabile, ma allo stesso tempo nichilista.

Un autista senza nome (Ryan Gosling) sbarca il lunario facendo lo stuntman, il meccanico nell’officina dell’amico Shannon (Bryan Cranston) e guidando di notte per portar via i malviventi dopo le rapine. Poi incontra la bella Irene (la dolce Carey Mulligan, per molti la nuova Audrey Hepburn), sua vicina di appartamento, che, insieme a suo figlio Benicio, diventa il suo unico legame con il mondo da cui resta, comunque, distaccato. Non si sa mai niente del protagonista, nemmeno il suo nome o il suo passato. Successivamente, si scopre che il marito di Irene, Standard, era in carcere e il suo ritorno sembra eliminare ogni possibilità di rapporti tra i due vicini di casa. Tuttavia Standard è coinvolto in un losco giro di affari e l’autista, per aiutarlo, si troverà invischiato in una lotta tra famiglie mafiose. Dovrà uscirne evitando di coinvolgere la donna di cui, segretamente, è innamorato.

Con un budget ridotto e poche scene d’azione alla Fast & Furious, Winding Refn raggiunge il traguardo della Palma d’oro a Cannes per la Miglior Regia e, nonostante tutte le critiche negative, che sostengono che nel suo film non ci siano elementi realmente originali, l’abile regista danese (autore dell’interessante Pusher), degno erede di Lars Von Trier, riesce, invece, a presentare la storia di un uomo dedito al suo lavoro in maniera maniacale, alienato dal mondo e che ha rimosso ogni tipo di legame nella sua vita. Non ha amici, non si lascia mai compromettere nei lavori che porta a termine e parla raramente con gli altri. Freddo e impassibile pilota, conduce un’esistenza ai margini di una società da cui si sente tagliato fuori e che ha deciso di sfruttare senza farsi trascinare nelle sue trappole. Il suo passato, probabilmente, l’ha reso così, e, attraverso Irene, cerca una sorta di redenzione, provando ad aiutare lei e la sua famiglia. Il suo stesso amico Shannon gli dirà: "Conosco tanti uomini che se la fanno con donne sposate, ma tu sei il primo che rapina un negozio per dare una mano al marito".

Pochi dialoghi, lunghi silenzi con deliziosi sottofondi musicali pop ed elettronici, creati ad arte da Cliff Martinez (il compositore di Solaris) e scene in cui i protagonisti sono perennemente avvolti in una calda luce dorata sostengono l’intima analisi di un uomo che tenta di lasciarsi guidare dalle sue motivazioni, senza farsi piegare dalla brutalità del contesto sociale che tenta di schiacciarlo. Drive è un termine che presenta la stessa ambiguità del personaggio interpretato dall’incantevole Ryan Gosling (introverso cavaliere solitario, paragonabile ad Alan Ladd e Gary Cooper), un termine che può significare tanto guida, quanto motivazione (impulso) e, perfino conficcare. Proprio quest’ultima accezione ci porta a collegare il personaggio di Gosling al suo “costume” e allo scorpione disegnato sul giubbotto (dorato, guarda caso), inquadrato spesso nelle meravigliose semi-soggettive. Lo scorpione è sia un segno zodiacale ambiguo e di difficile interpretazione e sia un simbolo araldico che rappresenta un “uomo che non perdona”, come il silente giustiziere di Drive. La sua natura (espressa nella storia dello scorpione e della rana) è proprio quella di uccidere le prede in maniera spietata e letale, senza lasciare scampo. È un animale che vive nel deserto, capace di diventare luminescente se esposto ad alte frequenze di luce ultravioletta (un aspetto, forse, enfatizzato anche dalla bella fotografia del film), ma soprattutto è un predatore notturno, come numerosi personaggi celebri della cinematografia, dal Travis Bickle di Taxi Driver al killer di Collateral. È pur vero che in Drive l’eroe non è un reduce della guerra in Vietnam, ma rispecchia ugualmente l’attuale difficoltà di relazionarsi con una società violenta, ambigua e difficile da comprendere. Il giustiziere ombra senza nome né passato è un individuo che tenta di redimersi scegliendo di lasciarsi guidare solo dalla sua natura e dalle sue abilità, isolandosi dal resto del mondo: un alienato, un guerriero notturno che si fida solo di se stesso.

Una nota di merito va, inoltre, alla deliziosa e bravissima Carey Mulligan che presto vedremo nel remake de Il Grande Gatsby, non a caso un’altra pellicola che analizza la natura umana e le sue forme attraverso la figura di un protagonista alla disperata ricerca della sua dimensione, che si lascerà coinvolgere, suo malgrado, dalla donna di cui è innamorato. Questo a dimostrazione di quanto possano essere significative le coincidenze nel mondo del cinema.

Il nostro Driver, come molti eroi della letteratura e della cinematografia, si lascia guidare dalla sua vocazione e da quello che sa fare meglio, dimostra di non lasciarsi piegare e di essere capace di seguire sempre e comunque la sua strada, di notte, nell’abitacolo della sua auto perfettamente modificata. Per ora gli basta questo: il suo incessante viaggiare, le luci notturne della città e i suoi fari che gli illumineranno il cammino. Il resto può lasciarselo alle spalle, nulla riuscirà a fermarlo. Restiamo soltanto con un quesito irrisolto: dove sta andando? Non ci è dato saperlo: Refn ci lascia con questo dubbio mentre focalizza lo sguardo sul viso di Gosling riflesso nello specchietto, sulle luci del quadro, sul cruscotto di tanto in tanto illuminato da fari esterni che ci passano accanto e poi… una rapida dissolvenza. Per sempre on the road, per sempre alla ricerca del nostro viaggio ideale.

Alessandro Pascale

Ci sono diversi fattori che rendono Drive un film indimenticabile:

-I primi dieci minuti: vieni precipitato nel mondo notturno di Los Angeles. Una telefonata oscura, un piano sequenza incantevole che conduce un misterioso personaggio biondo verso un'automobile che userà per fare da “autista” a due rapinatori. L'assenza di battute, di parole, di comprensione per quel che accade. Solo il ritmo martellante di un pezzo dei Chromatics (Tick of the clock) che scandisce il tempo e una radio che nel mezzo di un inseguimento della polizia segue l'andamento di una partita di baseball. Tensione a mille. Estetica indescrivibile. Semplicemente uno degli incipit più enormi della storia del cinema.

-Ryan Gosling. Si può dire quel che si vuole, ma senza la mostruosa prestazione di Gosling non ci sarebbe stato nessun capolavoro. Gosling sta a Drive come Robert De Niro sta a Taxi Driver. In entrambi i casi troviamo un genio alla regia, ma il valore aggiunto sta nel protagonista, che riesce ad interpretare un personaggio umanamente d'altri tempi, degna incarnazione dell'Humphrey Bogart dei nostri giorni. Fisicamente inespressivo, riservato, timido, meccanico, ma interiormente buono, sensibile e giusto. In certi momenti quasi un cyborg, ma capace lo stesso di conferire all'opera l'aspetto più drammatico ed umanamente toccante.

-L'extraterrestre e la colonna sonora. È probabilmente l'aspetto più originale dell'opera: l'intreccio tra uomo, macchina e ambiente. Gosling sembra un essere umano atipico: quasi una via di mezzo tra un cyborg e un extraterrestre buono (di quelli raccontati da Spielberg), piombato per caso su un pianeta non suo. Capace degli atti più brutali e violenti come delle carezze più lievi, Gosling trova il suo habitat naturale nel contatto con un'automobile, metafora di una vita in perenne viaggio. La resa dei momenti più emozionanti non sarebbe potuta essere possibile senza l'intreccio con una colonna sonora eccezionale. In tal senso ottima l'opera di Cliff Martinez ma eccezionale è l'utilizzo di atmosfere revival anni '80 che giocano su un romantico synth-pop (Under your spell di Desire, A real hero di College) grattato da un vocalist bifronte (Nightcall di Kavinsky & LoveFoxxx), o marchiato in un'alienazione robotica degna dei migliori Kraftwerk (la già citata Tick of the clock dei Chromatics).

-La regia. Ovviamente non si può non omaggiare la sublime regia di Nicolas Winding Refn, capace di coordinare ottimamente tutti questi elementi, gestendo a dovere anche l'intreccio tra elemento gangster-pulp e timbro drammatico-sentimentale (magistrale a riguardo è la scena dell'ascensore, dove ad un bacio appassionato segue una brutale scena di violenza). Ma è in generale la fotografia, l'uso delle tecniche di ripresa (l'alternanza virtuosa tra piani-sequenza, slow-motion, camera a mano, primi piani, ecc.), il montaggio, la sceneggiatura, la regolazione dei tempi e degli spazi. Tutto è perfetto, e concorre a far emergere Refn, finora autore brillante di lavori come Bronson e Valhalla Rising, ad autore di livello e fama internazionale. D'altronde per vincere una palma d'oro alla miglior regia un po' di talento bisogna averne...

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