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9/10

Il Villaggio di Cartone regia di Ermanno Olmi

Drammatico
recensione di Giulia Bramati

Un anziano prete soffre per lo smantellamento della sua Chiesa. Rimasto solo, una notte si ritrova a soccorrere un clandestino in punto di morte giunto in Italia insieme ad una ventina di compagni.

"Quando la carità è un rischio, quello è il momento della carità". La religione è un tema caro ad Ermanno Olmi - impossibile dimenticare "La leggenda del santo bevitore" - ma ancora di più lo è il tentativo di una fedele ricostruzione delle situazioni, per le quali le parole sono perlopiù superflue. Quando vinse la Palma d'oro nel 1978 con "L'albero degli zoccoli" volle ricreare la vita contadina di un zona della bergamasca a fine Ottocento; con "Il villaggio di cartone" vuole denunciare la triste realtà delle leggi sull'immigrazione in Italia oggi, senza risultare eccessivamente polemico.

La vicenda ruota attorno alle sensazioni del protagonista, un anziano prete senza più una chiesa dove poter celebrare la messa domenicale, il quale si trova a contatto con un gruppo di clandestini provenienti dall'Africa sfuggiti alla polizia. La scelta di aiutare queste persone è immediata, ma il sagrestano non si trova nella stessa posizione, infatti chiede al prete "Perché lasciate entrare quella gente nella nostra Chiesa?"; il prete, poi, risponde "Perché è una Chiesa"; di nuovo il sagrestano dice "Quella è gente diversa, avere a che fare con loro è un rischio per tutti". La diatriba risulta significativa, in quanto riassume le due diverse posizioni che gli italiani assumono di fronte al problema immigrazione: c'è chi approva una politica di accoglienza nei confronti dell'altro, c'è chi, invece, preferisce disinteressarsi e accettare le leggi dello Stato oggi in vigore. È interessante confrontare la visione di Olmi su questo tema con quella di Crialese, il cui film "Terraferma" è stato presentato a Venezia: se quest'ultimo ha raccontato la storia di un gruppo di immigrati e di coloro che li salvano, Olmi ha scelto di esporre il tema in maniera più solenne, servendosi di poche frasi apodittiche e ragionando sull'immigrato come persona. Certamente c'è una storia, ma è secondaria rispetto agli sguardi, alle sensazioni, alle espressioni dei personaggi. Olmi possiede il dono di rendere importante un sospiro, una lacrima, una carezza, gesti che raramente assumono un tale significato.

Parallelamente al problema dell'immigrazione, il regista affronta i dubbi del prete nei confronti della religione: “Ho fatto il prete per fare del bene, ma per fare del bene non serve la fede, il bene e più della fede". La fede è dunque il frutto di un continuo ripensamento, di cui anche i preti stessi sono vittime. Olmi vuole mostrare al suo pubblico l'umanità che caratterizza questi uomini, che si affidano completamente a Dio.

Il titolo del film si riferisce alle tende ideate dai clandestini all'interno della Chiesa smantellata: cartelloni utilizzati per ricordare ai fedeli occasioni di festa divengono sostegni per teli che vengono adagiati sui banconi della Chiesa.

Gli attori protagonisti del film sono molto bravi nel rendere significative le battute scritte da Olmi in sceneggiatura: Michael Lonsdale interpreta l'anziano prete, Rutger Hauer il sagrestano, Alessandro Haber il graduato e Massimo De Francovich il dottore. Un cast internazionale, che permette al film di raggiungere un livello molto alto.

Al termine del film, sullo schermo vengono proiettate queste parole: “o siamo noi a cambiare il corso della storia / o sarà la storia a cambiare noi", evidente monito di Olmi sul pericolo nel trascurare questo problema.

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