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6/10

Il Nastro Bianco regia di Michael Haneke

Drammatico
recensione di Dmitrij Palagi

Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, in un paese protestante nella campagna della Germania del Nord, si verificano inquietanti episodi. La violenza e lo scandalo vengono continuamente soffocati dalla volontà di difendere la quiete della comunità ma il susseguirsi di atti dall'aspetto punitivo minacciano di interrompere la cappa di silenzio.

 

Tra Weber e Freud spunta la Palma d'oro di Cannes 2009.

Un film difficile, non per complessità del messaggio ma per forme stilistiche: una durata che supera abbondantemente le due ore, la scelta di girare completamente in bianco e nero, la mancanza di colonna sonora (la musica appare sporadicamente ed è sempre eseguita da uno, o più, dei protagonisti).

Un tema non scontato come quello della natura umana, accompagnato dall'abbattimento della visione comune riguardo all'innocenza dei bambini, qui presentati come i futuri sostenitori del Terzo Reich, già formati con tutto quel bagaglio di frustrazioni che porterà la Germania ad una delle pagine più oscure della sua storia.

Sono elementi che potrebbero spaventare qualcuno. Non tutti desiderano un'impietosa narrazione che evidenzi le degenerazioni della moralità.

In un'Italia di formazione cattolica, dove la questione morale non rischia degenerazioni ma è del tutto assente, separata dalla politica e maltrattata dalla Chiesa romana, molti si potrebbero anche alzare dalla sala e venire via. Non parla a noi apparentemente. Su questo merita tornare più avanti perché è forse il punto che più evidenzia i limiti de Il nastro bianco.

Importante è spiegare come in realtà non ci sia una complessità reale. Se si riesce a guardare la pellicola con spirito giusto la trama scorre senza intoppi, con una risoluzione del mistero che nel finale pare ricordare la migliore tradizione dei gialli inglesi. Anche il titolo non nasconde grandi arcani: il tessuto rappresenta la presunta e voluta innocenza, dilagante a parole e negata in quasi tutto il campo umano nella quotidianità del villaggio dove si svolgono i fatti. Si salva la piccola borghesia, che sta al limite tra la frustrazione degli sfruttati e l'alienazione della borghesia più elevata. Un'analisi rivolta non solo alla società specifica in cui il nazismo troverà radici.

Un titolo alternativo a cui Haneke aveva pensato era La mano destra di Dio, con riferimento diretto al ruolo dei bambini, religiosi giustizieri che in farsa riproducono il ruolo dell'Inquisizione (o almeno di ciò che essa rappresenta oggi nell'immaginario comune). Il regista ha dichiarato:“il film non tratta solo di fascismo ma di un modello e del problema universale dell’ideale deviato”. Quindi un'accusa lanciata contro le degenerazioni di “religioni, ideologie e terrorismi di ogni segno”. Un'accusa argomentata con impostazione didascalica. Il distacco viene sottolineato dalla voce fuori campo, che illustra immagini e colori di un'altra epoca (l'inizio del XIX secolo appunto), aprendo e chiudendo con una dissolvenza che isola la trama in una sorta di parabola.

La violenza e l'elaborazione della colpa non sono certo temi inediti per Haneke, che da sempre insiste su questo versante. Qui il ragionamento pare però più freddo, con un impianto più teso ad indagare che al denunciare. Al solito la violenza non viene mostrata, inducendo lo spettatore ad una morbosa curiosità che lo rende parte dei meccanismi, perché in fondo è anche di lui che si sta parlando. Oltretutto ci sono indicazioni e domande ma nessuna risposta. Non si è parte della parabola ma si è chiamati a prendere voce nella discussione, al messaggio che se ne dovrebbe trarre (o alla possibilità di non trarre nessun messaggio).

L'impianto corale si accompagna a un'attenzione forte verso i personaggi (si parla di 7000 bambini chiamati alle prove). Nel villaggio gli adulti non hanno nome, non sono persone ma rappresentano i loro ruoli sociali. Il barone, il contadino, il maestro, il dottore e così a seguire. I personaggi tipo sono quindi la struttura portante della narrazione.

Lo splendido lavoro della fotografia (Christian Berger) aiuta a rendere la pellicola un'efficace parodia degli Heimatfilm. Facendo un confronto con questa tradizione cinematografica resta facile notare come il trauma non siano gli eventi che sconvolgono la comunità (quindi i singoli atti di violenza) ma l'impianto educativo, da cui si salva solo il Maestro.

Se da un lato si parla di una cultura non nostra (il ritorno del figliol prodigo è completamente ribaltato) il messaggio cerca canoni più universali. L'impostazione dà comunque l'idea di essere limitata. Le scelte stilistiche citate richiamano una nobile tradizione cinematografica europea: “tra Murnau e Bergman, c'è Haneke” ha scritto Mauro Gervasini su Film TV. Per assurdo è questo forse che maggiormente si fa apprezzare. L'invito al ragionamento, la discussione sul Male e l'ipocrisia della ricerca dell'assoluto sono invece posti in modo non troppo efficace. La visione è parziale, ancorata a una spiegazione discutibile. Riportare tutto alla società, ai suoi canoni e ai suoi riti (se non alla sua ideologia) taglia fuori diverse declinazioni sulla questione di cosa renda carnefici. Il personaggio del Maestro arriva persino ad urtare per il suo candore e l'innocenza che porta avanti.

Mariuccia Ciotta ha definito Hanekeun compilatore di danni mentali, un moralizzatore per mezzo di visioni apocalittiche”. Purtroppo o per fortuna l'uomo crea le sue contraddizioni in una normalità che non appare apocalittica, se non a posteriori, quando la società di cui era parte è ormai superata e aliena. A quel punto si rischia di degenerare nella riflessione puramente astratta ed anacronistica.

V Voti

Voto degli utenti: 6,8/10 in media su 6 voti.
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alexmn 6/10

C Commenti

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martimarti (ha votato 8 questo film) alle 23:31 del 8 gennaio 2010 ha scritto:

Sarei stata più generosa con le stelline. L'imperfezione, comunque, credo che sia dovuta più che altro a quella freddezza che hai citato, che impedisce a una lacrima-facile-da-film come me di liberarsi dall'atrocità delle immagini e delle storie attraverso un sano pianto. Trovo tuttavia che l'invito al ragionamento ci sia in abbondanza (per esperienza personale e per segnalazione di altrui conversazioni durate interi week-end: ma forse questa è malattia dei soggetti!). Dati i tempi che corrono non credo che l'assolutizzazione dei valori sia così distante da noi: bisognerà solo vedere se siamo i soliti italiani "tarallucci e vino". Il tema dell'educazione e delle sue conseguenze (considerato nella sua astrazione) si ripresenta ciclicamente, da Platone in poi (e forse anche prima), quindi non è male tener viva l'attenzione su questo argomento in una nazione che individua nei figli (e nella famiggghia) il più alto dei valori e poi si disinteressa completamente di loro quando si tratta di educarli, accudirli, istruirli.

Ho apprezzato enormemente le scelte formali e l'assenza di colori e musica(soprattutto quest'ultima; film molto più fruibili ci avevano abituato al B/N) elimina ogni traccia di emozioni umane. Forse è vero, sarà pure patetico il Maestro, ma è l'unico che sa e PUò provare emozioni (insieme alla bambinaia) ed è l'unico che si rivolge ai bambini INTERROGANDOLI, PARLANDO CON LORO. Non esaurirà la complessità del tema dell'origine del Male, ma credo anche che per un regista che ha studiato psicologia come Haneke questa sia senza dubbio l'impostazione fondamentale del problema.

SanteCaserio, autore, (ha votato 6 questo film) alle 10:01 del 18 gennaio 2010 ha scritto:

Stavo per tentare

una risposta articolata... però la discussione finirebbe per protarsi a lungo. Non voglio paragonarmi a nessuno per competenza. Solo penso di poter ritenere l'impostazione sbagliata, decontestualizzata e parziale, pur non avendo lauree in psicologia. Sugli italiani tarallucci e vino: non ho detto questo, semplicemente la valutazione presentata nel film è nord europea, non certo mediterranea. L'assolutizzazione dei valori tedeschi è ben diversa da quella degli italiani, dei greci o delle popolazioni della costa africana. E' sempre una mia opinione, intendiamoci. Sul problema dell'educazione non ho trovato questi grandi argomenti, mi sembra che sia più denso di idee un dialogo socratico. Forse il punto è la divergenza tra psicologi e filosofi . Poi come commento è interessante, spero di discordare spesso

Peasyfloyd (ha votato 7 questo film) alle 11:14 del 31 gennaio 2010 ha scritto:

al di là dei contenuti, senz'altro molto interessanti per i loro simbolismi io credo che il film abbia proprio un piccolo problema con quello che si può chiamare "ritmo". Troppi momenti morti, film nel complesso troppo lungo, con un'andatura che secondo me smorza troppo il clima di tensione che sarebbe potuto nascere dalla trama "giallistica". Fotografia eccezionale certo, così come alcune scene girate in maniera sublime. Di fatto però se la forma tipica del cinema europeo d'essai nordico è il vero valore aggiunto trovo che la tendenza di haneke ai ritmi lenti, alle pause eccessive (lo considero il contraltare del nostro antonioni) sia il più grosso limite dell'opera.

Per il resto se è piaciuto questo consiglio di andare a ripescare la serie Heimat di Edgar Reitz. Meno tensione e più "popolare" ma uguale fattura pregiatissima