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6/10

Il Segreto dei Suoi Occhi regia di Juan José Campanella

Drammatico
recensione di Dmitrij Palagi

Un violento delitto che chiede giustizia. Il colpevole viene trovato e arrestato. Torna in libertà per prestare servizio alla dittatura argentina. A un certo punto i protagonisti spariscono. 25 anni dopo, un funzionario della Corte di Giustizia che aveva indagato sul caso, decide di riordinare i ricordi e scrivere un romanzo sui fatti accaduti, cercando un epilogo ancora inedito.

 

Un melodramma a sfondo politico, poco digeribile per chi si atteggia ad intellettuale e per niente adatto a chi cerca storie d'amore prive di qualsiasi impegno.

Un regista sostanzialmente sconosciuto in Italia vince il premio Oscar come miglior film straniero e subito monta lo scandalo: perché mai di questo Maestro è stato distribuito nell'antica Penisola solo Il figlio della sposa (2001)? Perché se uno si mettesse ad analizzare il numero di titoli di qualità che in Italia difficilmente  si possono vedere ci sarebbe di che vergognarsi, senza bisogno di dar colpe ai tagli alla cultura dei vari governi nazionali .

La sceneggiatura è un approfondimento (non mera trasposizione) del libro La pregunta de sus ojos di Eduardo Sacheri, che collabora con Campanella nella stesura della sceneggiatura e garantisce uno sviluppo narrativo mai banale, dalle tinte noir in apertura, poi diviso tra il dramma d'amore e uno sguardo storico legato ad un gramsciano pessimismo della ragione.

Molti canali confluiscono nella storia principale, senza mai gettare luce oltre le vicende dei due protagonisti. “Gli argentini non hanno bisogno di spiegazione, e a tutti gli altri spero venga voglia di approfondire l'argomento” ha dichiarato un illuso Campanella. Come nel concorrente (agli Oscar) Il nastro bianco, la violenza non si mostra, né si preannuncia esplicitamente. Il clima e l'atmosfera sono più che sufficienti a richiamare l'Argentina dei desaparecidos, incastrati tra sequenze d'autore (l'inseguimento nello stadio di calcio) e una fotografia attenta ai colori, dove la narrazione cura la forma e cela i contenuti politici dietro ad un pesante rivestimento di legami sentimentali.

L'antropologia dei personaggi si mette in scena attraverso modalità che danno l'illusione di trovarsi davanti ad uno spettacolo teatrale, almeno in alcuni passaggi (all'interno della Corte di Giustizia). A parlare e a muoversi sullo schermo sono più i sentimenti che i caratteri definiti. La vendetta, la memoria, il senso di giustizia, l'amore, la violenza. In una parola, la passione. Perché tutti ne hanno una, per quanto perversa possa essere: il singolo senso di realizzazione si lega ad essa, alimentandola e rendendola un obbiettivo irraggiungibile, che si allontana di un passo, per ogni passo che cerca di avvicinarsi.

L'assenza di quella pesantezza che contraddistingue molti film drammatici si fa aiutare dalla splendida recitazione dei vari attori - cui spiccano Riccardo Darìn, Soledad Villamil (entrambi hanno già lavorato con il regista) e il don chisciottiano Sandoval, capace di strappare sorrisi e ironia degni della miglior narrativa contemporanea.

A metà tra il film d'autore e il film di genere, a metà tra l'impegno politico e la storia d'amore: un film che vale la pena vedere, che lascia lo spazio per numerose riflessioni (storiche quanto esistenziali), pur non essendo un capolavoro di un imprescindibile Maestro (come qualche solito esagerato ha voluto ipotizzare).

La domanda che, finita la pellicola, più avrebbe senso porsi è: quale passione mi spinge ad alzarmi ogni mattina?

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