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8/10

Calamari Union regia di Aki Kaurismäki

Surrealismo
recensione di Alessandro Pascale

Un gruppo di amici vive all'estrema periferia di Helsinki. Sono così lontani dal centro della città, che per loro è come se vivessero in un altro mondo. Un giorno decidono di partire per andare a visitare il centro storico, si accorgono allora che Helsinki in realtà è un luogo molto pericoloso, dove dietro ogni angolo è in agguato un'avventura.

Signore e signori, benvenuti nel meraviglioso mondo di Kaurismaki, maestro nordico del cinema surreal-minimale. Ricorda il regista che dopo l’esordio “classicista” di Delitto e Castigo (1983) tutti i critici finlandesi lo aspettavano la varco per “pugnalarlo alla schiena”. Lui se ne uscì quindi con un film completamente diverso che invitava tutti a non vedere perché davvero pessimo.

Che Calamari Union sia un’opera del tutto fuori dalla norma è poco ma sicuro, ma di pessimo c’è davvero poco, per non dire nulla. Di assurdo semmai, quello sì, ce n’è davvero tanto. Ed è un’assurdità tremendamente reale e crudele, pur nella sua irreale e parodica goffaggine. Una ventina scarsa di persone disadattate, povere in canna e dall’aspetto strampalato in stile Blues Brothers dei ghetti punk, si ritrovano in un salone per pianificare la fuga dalla realtà degradante del proprio quartiere. Obiettivo: l’agiata zona urbana di Eira, luogo dove i nostri sperano di poter trovare migliori condizioni di vita.

Tutti gli uomini portano occhiali da sole e si chiamano Frank. Tutti. Al di fuori di pochissimi lampi di lucidità (tra cui i primi illuminanti minuti di introduzione) i dialoghi e i discorsi che seguono tendono all’irreale o al teatro dell’assurdo di Ionesco. Quello che dovrebbe essere un viaggio semplice diventa un percorso a vuoto, un’immersione in una città-labirinto che sembra averli tutti intrappolati come all’interno di una bolla di sapone. Il gruppo si disperde e inizia ad essere via via inglobato o punito dalla lucidità di una società che colpisce spietatamente il gruppetto sociale emarginato e “diverso”.

Chi non si arrende e lotta in maniera anche violenta e decisa viene eliminato senza possibilità di appello, senza processo, nell’indifferenza (consenso silenzioso?) generale. Alla fine solo in due arriveranno alla meta ma incredibilmente non vi troveranno motivo di soddisfazione, anzi la fatidica Eira diventerà il ponte di lancio per una nuova tappa più lontana, l’Estonia. Ma ormai il gruppo è ridotto a due sole unità e la forza potenziale delle prime scene lascia il posto ad un’amara e comica scena in cui i due superstiti cercano di attraversare il mare in barca a remi.

Ci azzardiamo a fare un’interpretazione politica di Calamari Union, per cui il gruppetto di sbandati iniziali simboleggerebbe la classe proletaria: senza un soldo, tutti uguali (uguale nome), poco istruiti, dall’aspetto apparentemente volgare e disadattato. Questa, tenendo ben saldo l’orizzonte comunista (la fantomatica Eira) si trovano a dover lottare duramente con la società che gli pone ostacoli insormontabili e dentro la quale alcuni sembrano perdere la coscienza di classe (chi decide di rinunciare al sogno per un lavoretto sicuro come il portiere di notte, chi si fa ammaliare da una bella donna su una bella macchina) altri perdono la vita senza rimorso nell’azione rivoluzionaria o nel tentativo di propaganda verso un popolo solo fintamente tale (tale l’uccisione fatta dalla “segretaria” che dopo monta in sella sul macchinone).

Alla fine i pochi che arriveranno a cogliere il socialismo reale cadranno nella grande delusione, e inizieranno a rincorrere altre ideologie, altri sogni, con mezzi (chiavi di lettura politiche) sempre meno adeguate e scarse (la barca a remi...). Questa è una chiave di lettura, ma forse si può pensare che il “Frank” fisso per tutti i personaggi testimoni piuttosto la perdita d’identità dell’individuo post-moderno, incapace di ritagliarsi uno spazio individuale autonomo dalle categorie e classi sociali cui è costretto. Di qui la ribellione in cerca di una società migliore, in grado di valorizzarlo davvero.

Tante le allegorie e i simbolismi dell’opera di Kaurismaki. Sorprendente soprattutto il fatto che una simile ricchezza sottotestuale sia stata realizzata con mezzi scarsissimi, una sceneggiatura stringata all’osso nei dialoghi ed una vena surreal-grottesca degna del miglior Lynch. Il tutto condito da una tecnica registica sopraffina che non lascia nessuna inquadratura al caso, alternando riprese svolazzanti a camere fisse figlie della Nouvelle Vague più estrema. La scelta del bianco-nero infine non fa che aggiungere un tocco di atemporalità e classicità ad un’opera che andrebbe senz’altro riscoperta per la sua demenziale magnificenza.

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