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6/10

Doppio Gioco regia di James Marsh

Thriller
recensione di Alessandro Pascale

Irlanda del Nord, anni 90. Colette dopo un fallito attentato a Londra viene arrestata dai servizi segreti britannici e costretta a scegliere se collaborare dando informazioni sull'IRA (di cui fa parte quasi l'intera sua famiglia) o andare in carcere perdendo suo figlio. Ben presto però la collaborazione proposta diventerà assai problematica per ambo le parti.

Facendosi forte della presenza di peso di Clive Owen, James Marsh mette in scena uno spy-thriller dallo sfondo politico, ambientato nell'Irlanda dei primi anni '90, tormentata dalle azioni dell'IRA.

La politica però in effetti resta proprio ai margini, e questo è un peccato. Al di là dell'incipit iniziale, di forte effetto drammatico e scenografico, si stende un velo costante sulle ragioni di una lotta armata capace di radunare le simpatie di interi quartieri, comprese le vecchiette, che in genere rappresentano il contrappeso che mette a freno l'utopismo scellerato dei figli spericolati.

La sceneggiatura di Tom Bradby va invece a parare proprio su questo classico tema: la scissione dell'individuo tra l'appartenenza familiare e quella politico-sociale. Più precisamente si rappresenta una donna diventata madre forse troppo giovane, e saldamente radicata in una famiglia interamente dedita alla causa dell'IRA. Mancando un marito sono i due fratelli, tra i leader dei gruppi armati locali, a farne le veci. Ma la scelta tra la perdita del figlio e il tradimento della propria famiglia (di sangue oltre che “politica”) è qualcosa di simbolicamente più profondo della mera scelta tra il personale e il politico. Subentra una serie di fattori emotivi e psicologici di difficile risoluzione e comprensione per gli stessi personaggi che animano le vicende della storia (di qui anche il sanguinoso finale).

Come interpretare nel complesso Doppio gioco? Va forse visto come un cedimento complessivo della causa politica in vista della considerazione che gli affetti familiari sono più importanti? Oppure, proprio in virtù del finale, che ogni piccolo cedimento e distacco dalla lotta politica conduce proprio a quella traumatica rottura dell'ordine familiare?

Difficile dare una risposta univoca, e forse proprio per questo motivo Marsh riesce a mantenere un equilibrio narrativo e tematico interessante, senza rischiare di scadere in volontà reazionarie o agiografiche. Si evita di prendere le parti e si preferisce concentrarsi sulle sfumature psicologiche di una storia fatta di intrighi, segreti, passioni e camuffamenti. Ciò risalta le qualità attoriali della protagonista Andrea Riseborough, che controbilancia la prova un po' stantia del suo alter ego Clive Owen.

Nel complesso però Doppio gioco sembra un film debole, sia per una sceneggiatura un po' fiacca che, al di là del canovaccio sopra enunciato, non riesce ad aggiungere particolari guizzi degni di attenzione, sia per un cast nel complesso non all'altezza. La fotografia “televisiva” e le scenografie in stile realista danno un senso di povertà cinematografica, e perfino la regia di Marsh diventa eccessivamente statica in certi momenti. Rimane negli occhi la splendida prestazione della Riseborough e l'inaspettato colpo di scena finale dopo un'indagine rappresentata con modalità alla Fincher. Un po' pochino insomma, ma neanche da buttar via...

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