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6/10

L'Ordine Naturale Dei Sogni regia di Ricky Gervais

Commedia
recensione di Alessandro Pascale

Nel 1970 tre amici trascorrono le loro giornate giocando, bevendo e facendo scorribande spesso illegali. Ma crescendo le cose cambieranno e ciascuno di loro si troverà a dover fare delle scelte importanti per il proprio futuro.

Ci sono diverse cose che disturbano non poco de L'ordine naturale dei sogni: in primo luogo la capacità di catturare quanto di peggio prodotto dagli anni '70 in fatto di musica, avendo una colonna sonora fondata quasi esclusivamente su un glam-rock assai tamarro e patinato. Ciò però è vero solo in parte se esclusi gli ultimi sei minuti, su cui però torneremo in seguito.

La seconda cosa che può disturbare non poco è la perfezione meticolosa con cui sono lustrati a lucido i personaggi che si muovono nella nostra storia. Non c'è molto bisogno di precisare alcunchè, basti guardare il trailer per accorgersi delle pettinature incredibilmente perfette in qualsiasi istante del film. Stesso discorso per i costumi e le scenografie, perfino quando le riprese si spostano in fabbrica. È un mondo pulito e perfetto quello de L'ordine naturale dei sogni, dove il candore della commedia si scontra solo testualmente con i dubbi e le traversie dei nostri eroi, mentre l'aspetto visivo è talmente impeccabile da sembrare il set finto in cui si aggirava Jim Carrey in Truman Show: roba di cartapesta.

Il contrasto si sente nel momento in cui Gervais sceglie di deviare dal taglio esclusivo della commedia per fare l'occhiolino alle questioni drammatiche del lavoro, della crisi esistenziale giovanile, dei complessi rapporti familiari e della vita del proletariato di periferia. Troppa carne al fuoco che mal si coniuga con l'intreccio principale, questo sì incantevole per il modo in cui è sviluppato, con un candore lucente degno del Marc Webb di 500 giorni insieme.

Il resto, spiace dirlo, non convince granchè, e puzza di artificiale lontano un miglio, a partire dal trio di amici “sgangherati” (Jack Doolan che cerca disperatamente di acquisire il carisma di Jack Black non fa un po' pena?) che combinano ragazzate in giro per i locali.

Poco convincente anche l'ideologia sognante di fondo dell'opera, che incentiva al sogno romantico e libertario (hippie?) con cui si chiude l'opera, in un finale citazionista de Il laureato. Poco convincente soprattutto per l'incapacità (o la non volontà) di far “pagare” al cattivo di turno (il padrone dell'agenzia di assicurazioni) quel che si meriterebbe con un sano conflitto organizzato, invece di fargli uno scherzetto turbandogli di sottecchi la vita familiare intima. Stesso discorso per la realtà lavorativa di fabbrica, dalla cui condizione non si esce se non con il sogno di una fuga, abbandonato anch'esso per far spazio alla ricomposizione degli affetti familiari. È insomma la classica situazione in cui il fattore socio-economico (lavorativo) viene abbandonato e privato di importanza in nome di un certo languore sentimental-romantico. Non stupisce d'altronde che la colonna sonora per accompagnare tutto ciò sia il glam-rock di Elton John.

Se quindi l'opera merita di essere ricordata e ammirata è solo e soprattutto per l'incantevole presenza di Felicity Jones e per i sublimi sei minuti finali dell'opera, dove il maggiore merito di Gervais e Merchant è quello di lasciar scorrer via le ultime vicende sulle note dell'inarrivabile The Rain song dei Led Zeppelin. Ci voleva tanto a capire che con Jimmy Page non si sbagliava?

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