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8/10

Riff Raff regia di Ken Loach

Drammatico
recensione di Alessandro Pascale

Lo scozzese Stevie è un ex detenuto per furto che sotto falso nome lavora come operaio in un cantiere edile della Londra della ristrutturazione economica. Lavorando sodo inizia la sua nuova vita in cui entrano a far parte Susan, giovane artista disoccupata e gli operai compagni di cantiere. Ma le precarie condizioni di lavoro e la difficile vita quotidiana della classe proletaria romperanno l'equilibrio faticosamente raggiunto.

Riff Raff rappresenta probabilmente una delle più realistiche rappresentazioni possibili delle conseguenze dirette del successo neoliberista nella società post-industriale occidentale. In particolare qui il riferimento è all’Inghilterra governata, al momento della realizzazione del film, da ormai un decennio abbondante da Margaret Tatcher, la lady dal pugno di ferro.

Impossibile esulare dal contesto socio-economico quindi per comprendere l’essenza dell’opera di Loach. La disfatta del sogno socialista, congiunta all’avanzata delle destre reazionarie e conservatrici hanno forse contribuito negli anni ’80 a far ripartire la macchina economica dell’Occidente, favorendone la ripresa della crescita economica e la cessazione della crisi apparentemente strutturale in cui era piombato il sistema capitalista negli anni ’70.

Questi risultati però non sono stati privi di conseguenze. La salvezza del modello economico è andata a discapito delle persone, particolarmente della classe operaia, stretta nella morsa d’acciaio di una generale perdita di peso politico e sociale. Le condizioni in cui si ritrovano a lavorare Stevie (Robert Carlyle) e i suoi compagni di cantiere subiscono quindi un netto peggioramento in tutti i sensi.

Sfrattati dalle vecchie case popolari gli operai vengono privati delle più elementari norme di sicurezza. La decadenza dei sindacati, la cui utilità non viene più percepita dai lavoratori stessi, determina l’impossibilità da parte di questi stessi di avere la certezza di mantenere il proprio posto di lavoro. Figurarsi quella di ottenere i benchè minimi diritti del lavoro. La “classe imprenditoriale” è talmente forte da imporre questo stesso appellativo all’opinione pubblica contro quello più veritiero (padronato) che le sarebbe consono. Nessun problema naturalmente a stroncare sul nascere la minima rinascita di uno spirito solidaristico tra gli operai, che di fronte ai sempre più numerosi soprusi mostrano barlumi di lucidità riacquistando sprazzi di coscienza di classe.

In queste condizioni ogni possibilità di avere un confronto pacifico e utile con il padronato diventa dannoso più che inutile, come dimostra il licenziamento dell’occhialuto intellettuale politico del gruppo, che per troppo tempo i compagni si sono rifiutati di ascoltare. Il risultato sociale di questa situazione è tragico, con l’aumento degli incidenti sul lavoro e della disoccupazione, oltre che dell’inasprimento delle tensioni sociali. Ma le ripercussioni si estendono ben al di là della stessa classe operaia, radicandosi in generale nei settori più marginali della società.

Tale è da intendersi l’alienazione di Susan (Emer MacCourt), la compagna di Stevie, donna dalle qualità e ambizioni artistiche elevate, che però non trovano accoglienza nella rigida e rozza società inglese tatcheriana (e purtroppo nello stesso anestetizzato pubblico operaio). Le conseguenze tragiche sono il tuffo nelle droghe e lo sfascio del legame affettivo faticosamente formato con Stevie. È la società che distrugge la vita degli individui con procedure invisibili, probabilmente senza neanche accorgersene. In questo scenario carico di tragicità Loach però non perde del tutto la speranza di un cambiamento.

Gli operai pur smarriti e spesso in lotta tra loro rimangono sagaci, guasconi, pronti a far fronte alle difficoltà con ogni espediente, mantenendo quel minimo di solidarietà comune che consente di far fronte alle tante piccole difficoltà quotidiane. La presa di coscienza della profonda ingiustizia che si fa avanti nei rapporti della fabbrica e i suoi tragici esiti contribuisce poi a risvegliare dall’apatia lo stesso Stevie, personaggio che mostra un tormentato percorso interiore passando dal torpore e assenza iniziale ad un sempre maggiore protagonismo che approda al rifiuto di accettare un simile stato di cose.

Il finale che vede il suo atto di lotta disperata va visto quindi come la volontà di reagire con ogni mezzo e in maniera ben visibile alle politiche padronali autoritarie. Qualcuno vi dirà che questo finale rappresenta un pericoloso inno alla violenza e che vada quindi condannato. Non ascoltateli. Sono borghesi che fanno finta di non conoscere la violenza dei rapporti di produzione. Per distruggerli non è necessario il fuoco evocato nelle ultime scene del film. Basta la forza delle idee e la volontà di perseguire un mondo giusto.

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Enzo Barbato (ha votato 8 questo film) alle 12:17 del 28 ottobre 2009 ha scritto:

Scarno ma efficace

With a little help from my friends...